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Te­sti di
Ja­co­po Ab­bal­le

Im­ma­gi­ne di
Ja­co­po Ab­bal­le

Edi­ting di
Si­mo­ne La Pen­na

Ca­te­go­ria
Nar­ra­zio­ni rot­te

Da­ta di pub­bli­ca­zio­ne
11 Apri­le 2023

Erotomania

Sta in pie­di sul ma­te­ras­so. Da­van­ti a me due gam­be nu­de. Pog­gia tut­to il pe­so sul­la gam­ba de­stra e tie­ne l’altra un po’ pie­ga­ta, mol­le – il suo­no dell’accendino, uno, due ten­ta­ti­vi, il fia­to che va in­den­tro e tor­na fuo­ri. Che splen­di­de gam­be, sen­za vo­glie né ros­so­ri. So­lo gam­be, l’idea di due gam­be di don­na – so­gno di es­se­re de­ca­pi­ta­to da una for­bi­ce di car­ne. Lei si gi­ra un po’ ver­so di me e non pos­so fa­re a me­no di am­mi­ra­re il suo pu­be. Le lab­bra si ve­do­no po­co, ma ha un ce­spu­glio co­sì gra­zio­so, dai pe­li chia­ri e mor­bi­di. Sen­to il pe­so del suo sguar­do: non vo­glio in­cro­ciar­lo.

“Pos­so far­ti una do­man­da?”

Per un at­ti­mo si tie­ne in equi­li­bro su una gam­ba e av­vi­ci­na il suo pie­de so­spe­so ver­so il mio caz­zo. Le pic­co­le di­ta so­no chiu­se stret­te su se stes­se.

“Dim­mi.”

“Ma sei cir­con­ci­so?”

 “No.”

“Stra­no, ep­pu­re avrei det­to…”

Il pie­de si al­lon­ta­na, co­me de­lu­so.

“Lo so, sem­bra.”

Una vo­ce di me­ga­fo­no, grac­chian­te e ar­rab­bia­ta, rag­giun­ge la stan­za: “La ca­sa è di chi la abi­ta!”. Se­guo­no mol­ti ap­plau­si e un vo­cia­re esal­ta­to ma at­tu­ti­to. Fuo­ri fa fred­do e pio­ve. Io me ne sto pog­gia­to sui go­mi­ti. Sen­to lo sper­ma che mi co­la dal­la pan­cia. Lei tie­ne la si­ga­ret­ta con le lab­bra all’indentro e in­tan­to strap­pa dei klee­nex dal­la sca­to­li­na sul mo­bi­le. Le por­go la ma­no. Lei in­ve­ce si ab­bas­sa ver­so di me, but­ta fuo­ri il fu­mo sen­za stac­car­si dal­la si­ga­ret­ta, e co­min­cia a pu­lir­mi. Par­te dal­le co­la­tu­re e poi ri­sa­le ver­so il cen­tro dell’addome.

“Non c’era bi­so­gno…”

“La­scia. Mi pia­ce far­lo. Mi ri­las­sa. Co­me fu­ma­re.”

Nes­su­na me lo ave­va mai fat­to, ma è uno spet­ta­co­lo in­te­res­san­te. Mi sen­to un bam­bi­no e non ho vo­glia di aiu­tar­la.

“Gra­zie.”

Lei con­ti­nua, con de­li­ca­ta de­di­zio­ne, fin­ché tut­ti i pe­li scu­ri dell’addome non so­no pra­ti­ca­men­te asciut­ti. Rac­co­glie i faz­zo­let­ti spor­chi e li met­te sul pa­vi­men­to, ac­can­to a una pi­la di li­bri.

“Leg­gi mol­to, eh?”

Pu­li­to e asciut­to, mi la­scio ca­de­re sul cu­sci­no e chiu­do gli oc­chi. Mi pas­so una ma­no ad ac­ca­rez­zar­mi la fac­cia, in­si­sten­do sul­le pal­pe­bre. Sen­to le pal­pe­bre co­sì leg­ge­re. Sto co­sì be­ne che il vo­cia­re di mil­le uo­mi­ni qua­si scom­pa­re.

“Leg­go, sì.”

“Ma si ve­de che sei uno che non osten­ta la pro­pria cul­tu­ra.”

Di­ce que­sta co­sa, ma non so co­sa glie­lo fac­cia di­re.

“Non lo so, non mi in­te­res­sa par­la­re di li­bri. Non leg­go per pia­ce­re. Leg­go per go­de­re.”

Sen­to il pe­so di lei che mi af­fian­ca. La guar­do di sguin­cio: se ne sta pog­gia­ta sui go­mi­ti, con le gam­be all’aria. Fu­ma e guar­da drit­ta da­van­ti a sé. Una cioc­ca di­sor­di­na­ta di ca­pel­li le co­pre qua­si tut­to il pro­fi­lo. Le spal­le sot­ti­li. La schie­na ar­cua­ta. Quan­do le ra­gaz­ze non ti guar­da­no so­no più bel­le.

“Lo ca­pi­sco, sai? Anch’io leg­go so­lo li­bri ero­ti­ci. Per ca­pi­re se va­le la pe­na pren­de­re un li­bro lo apro in uno o due pun­ti a ca­so e se ca­pi­to su pa­ro­le co­me ses­so, sper­ma, caz­zo, fi­ga… al­lo­ra lo com­pro.”

“La por­no­gra­fia è la di­mo­stra­zio­ne che non ser­ve al­cun con­flit­to per far pro­ce­de­re una sto­ria. O for­se che non ser­ve al­cu­na sto­ria per scri­ve­re un ro­man­zo.”

“Ma il ses­so non è una co­mu­nio­ne. Il ses­so è il con­flit­to.”

Ora la guar­do sen­za na­scon­der­mi. Ogni tan­to ca­pi­ta di fa­re que­sti di­scor­si do­po aver go­du­to, è nor­ma­le: il ses­so chia­ma al­tro ses­so.

“Un con­flit­to, eh? Ma­ga­ri an­che un de­lit­to…”

“ ‘Il coi­to è la pa­ro­dia del de­lit­to.’ ”

Lo di­ce con mol­ta se­rie­tà, sta­vol­ta guar­dan­do in al­to, ver­so la fi­ne­stra. Ver­so le vo­ci.

Mi vie­ne da sor­ri­de­re: “Ve­do che ab­bia­mo let­to gli stes­si li­bri.”

Spo­sta il po­sa­ce­ne­re di qual­che cen­ti­me­tro, da una mat­to­nel­la all’altra. Da quan­do vi­vo con il ma­te­ras­so sul pa­vi­men­to so­no più fe­li­ce: è tut­to a por­ta­ta di ma­no, i li­bri, le si­ga­ret­te, i faz­zo­let­ti. Il sof­fit­to è co­sì in al­to che guar­dar­lo è co­me guar­da­re il cie­lo. So­no a bor­do di una bar­ca in un ma­re piat­to, sen­za cor­ren­ti, e an­che og­gi non nau­fra­ghe­rò. Non da so­lo.  

“Mi so­no scor­da­ta co­me ti chia­mi.”

“Da­vi­de.”

“Io so­no Car­lot­ta.”

“Sì, me lo ri­cor­da­vo,” e ri­do un po’.

“Og­gi so­no la pri­ma?”

Mi so­no per­so il mo­men­to esat­to in cui ha ri­pre­so a guar­dar­mi, ma ora lo sta fa­cen­do. Ci stia­mo guar­dan­do ne­gli oc­chi.

“Per­ché mi chie­di una co­sa co­sì?”

“Per­ché ho ca­pi­to che ti­po sei.”

“Mah.” Chiu­do gli oc­chi e tor­no ad ac­ca­rez­zar­mi le pal­pe­bre.

“Quan­do hai per­so la ver­gi­ni­tà?”

“La do­man­da di pri­ma era più ori­gi­na­le.”

“Io a 13 an­ni.”

“Non lo vo­glio ri­cor­da­re.”

Lo di­co con una cer­ta du­rez­za e un po’ mi di­spia­ce. Smet­to di toc­car­mi la fac­cia e su­bi­to sen­to toc­car­mi da qual­che al­tra par­te, sul brac­cio che ten­go ste­so vi­ci­no a lei.

“Hai la pel­le d’oca.” Spe­gne la si­ga­ret­ta nel po­sa­ce­ne­re, poi ti­ra il len­zuo­lo e lo sten­de per co­pri­re i no­stri cor­pi nu­di fi­no al pet­to. Mi si fa vi­ci­na. Le sue gam­be cer­ca­no le mie. Pog­gia­ta su un fian­co, co­min­cia a ba­ciar­mi il col­lo. È un oscu­ro po­me­rig­gio d’inverno, uno di quel­li sen­za so­le, in cui si ten­go­no le lu­ci ac­ce­se tut­to il gior­no. I suoi ba­ci so­no cal­di e fuo­ri si ge­la. La sua nu­di­tà mi fa tre­ma­re.

“Vi­vi qui da so­lo?”

“No, non po­trei per­met­ter­me­lo. Ho due coin­qui­li­ni.”

“Ma­schi?”

“Sì. Con una ra­gaz­za non ce la fa­rei. Trop­pe ten­ta­zio­ni.”

“Io ho vis­su­to con mol­ti ra­gaz­zi. Lo ca­pi­sco. Ora vi­vo da so­la, ma non mi pia­ce. Mi sen­to so­la.”

Mi ac­ca­rez­za il pet­to fa­cen­do una cer­ta pres­sio­ne. La sua ma­no è af­fu­so­la­ta e te­ne­ra. Le sue ca­rez­ze si­cu­re e sen­sua­li.

“Ti sei mai in­na­mo­ra­to?”

“Lo so­no an­che in que­sto mo­men­to.”

“Di me?” Fi­nal­men­te la ve­do ri­de­re.

“Sì. Ti sto aman­do mol­to.”

“Quin­di sei uno di quel­li che non rie­sce a se­pa­ra­re il ses­so dall’amore.”

“Pen­sa­vo aves­si ca­pi­to che ti­po so­no.” La vo­glio ba­cia­re ma non lo fac­cio. Lei mi sor­ri­de a po­chi cen­ti­me­tri dal­la fac­cia ma non mi ba­cia. Poi ag­giun­go: “Tu no. Per te so­no due co­se se­pa­ra­te.”

“Sì.”

Il vo­cia­re di fuo­ri si fa per un at­ti­mo chia­ro e ine­qui­vo­ca­bi­le: “Noi so­no die­ci an­ni che stia­mo qua e ora ci vo­glio­no but­ta­re fuo­ri. Ma sta gen­te ma­le­det­ta non ca­pi­sce che la ca­sa è un di­rit­to, mi­ca un pri­vi­le­gio!”

Lei mi guar­da: “Ma il ter­mo­si­fo­ne è ac­ce­so?”

“Sì. Hai fred­do?”

“Un po’.”

Si fa an­co­ra più vi­ci­na, mi cin­ge il col­lo con le brac­cia e in­trec­cia le sue gam­be nu­de al­le mie. La sua pel­le è li­scia e mor­bi­da co­me quel­la del­le ra­gaz­zi­ne. Lei pe­rò non è una ra­gaz­zi­na. Ha gli oc­chi di una don­na. Mi guar­da un’ultima vol­ta pri­ma di na­scon­de­re la te­sta tra il mio orec­chio e la mia spal­la: “Co­me puoi di­re di es­se­re in­na­mo­ra­to di me se nem­me­no mi co­no­sci?”

“Ma io ti co­no­sco.”

“Sì, ora di­rai che co­no­sci le mie ma­ni, il mio ven­tre, la mia schie­na… i ba­ci, le ca­rez­ze.”

“Co­no­sco an­che il tuo no­me, Car­lot­ta, e mi pia­ce mol­to. È un no­me pie­no di ca­lo­re.”

“Ami le co­se più su­per­fi­cia­li di me.”

“Le più ve­re.”

Si grat­ta la pun­ta del na­so e ri­de.

“Poi sì, ca­pi­sco che tu non puoi ri­cam­bia­re al­lo stes­so mo­do… non ri­cor­di nem­me­no il mio no­me.” La mia vo­ce è se­ria, ma sto sor­ri­den­do.

“Ma sì, ora me lo ri­cor­do!” Si scol­la da me di col­po per guar­dar­mi ne­gli oc­chi.

“Sen­tia­mo…”

“Da­vi­de, ti chia­mi Da­vi­de. E mi pia­ce. È un bel no­me. Ma non mi ba­sta un no­me da pro­nun­cia­re per ama­re qual­cu­no, mi di­spia­ce. Che stai cer­can­do?”

“Le si­ga­ret­te.”

Me le pas­sa e me ne ac­cen­do una. Non fu­mo spes­so, ma par­la­re di que­ste co­se mi fa ve­ni­re una gran vo­glia. Ora se ne sta con la te­sta pog­gia­ta sul pal­mo del­la ma­no. Il go­mi­to con­fic­ca­to nel cu­sci­no, i se­ni di fuo­ri. Con quel len­zuo­lo ad­dos­so sem­bra an­co­ra più nu­da. Fu­mo e non pos­so smet­te­re di guar­dar­la. La si­ga­ret­ta che si con­su­ma sot­to il mio re­spi­ro è il suo­no che pre­fe­ri­sco.

“Car­lot­ta.”

Mi sen­to toc­ca­to dal suo sguar­do, che è pro­fon­do e vi­vo. Pro­fon­da­men­te vi­vo.

“So­no il pri­mo del­la gior­na­ta?”

“No.”

Scop­pia qual­co­sa, in stra­da. Un boa­to tre­men­do. Ci vol­tia­mo di col­po ver­so la fi­ne­stra. Qual­cu­no ur­la fo­men­ta­to, qual­cun al­tro ur­la di ter­ro­re. Dal bas­so ver­so l’alto non ve­dia­mo che il tet­to del pa­laz­zo di fron­te e il cie­lo gri­gio. Tut­to è im­mo­bi­le, fin­ché una fu­ma­ta il­lu­mi­na­ta di ros­so non in­va­de il pa­no­ra­ma. Una nu­vo­la mo­struo­sa, den­sa, che si espan­de len­ta nell’aria. Fu­mo vi­vo e con­si­sten­te. Ros­so pie­no e vi­bran­te. I no­stri oc­chi so­no fis­si su que­sto spet­ta­co­lo. Lei tie­ne la sua ma­no cal­da sul mio fian­co: “È bel­lis­si­mo.”

Il suo vol­to tin­to di quel ros­so… La si­ga­ret­ta bru­cia len­ta tra le mie di­ta, ma non ho più vo­glia di fu­ma­re. Le met­to una ma­no tra le gam­be, quel­le gam­be per­fet­te. Ri­co­min­cia­mo.