Testi di
Anonimo Trobadorico
Editing di
Alice Migliavacca
Categoria
Passaggi viscerali
Torre d’avorio
Data di pubblicazione
10 Gennaio 2024
Les pauvres chercheurs
Di tornei d’armi, piramidi feudali, mercenariato flessibile e rivoluzioni francescane
Abstract: Attraverso un paragone metastorico, volutamente grottesco, il testo propone di analizzare la condizione del/della ricercatore/-trice, intesa come “classe accademia” che s’avvia con il periodo di studio dottorale, nel panorama dialettico e pratico del presente. Il termine di paragone, la figura del cavaliere errante-cortese rinascimentale, tanto nelle sue caratteristiche storiche quanto “romantiche”, è impiegato per mettere in luce la precarietà e insieme la distorta narrazione che soggiacciono a una narrazione fuorviante del ruolo del giovane ricercatore nel panorama nostrano. L’intervento, che integra anche l’analisi di dati statistici, si costruisce come una disamina del paragone instaurato al principio dell’esposizione, seguito da una trattazione della realtà fattuale, delle sue criticità e delle possibilità di cambiamento più volte ipotizzate ma mai efficacemente messe in atto. La trattazione propone, alla fine, una nuova immagine del/della ricercatore/-trice e del suo ruolo nella società, rivendicandone una posizione di primo piano a fronte delle distorsioni storiche che avvengono nell’agone pubblico, frutto dello scollamento dell’ambiente accademico dalla realtà concreta.
Chiunque sia rimasto affascinato, sin dall’infanzia, dalla Storia in tutte le sue sfaccettate forme lo ha fatto, solitamente, perché innamoratosi di un qualche film od opera d’animazione. E questo discorso vale per chiunque sia nato/a, probabilmente, intorno agli anni ’80 del secolo scorso[1]. Per l’autore del presente le cose non sono andate diversamente: da questi input nacque ciò che, col tempo, è divenuta un’occupazione a tempo pieno. Sebbene oggi i miei interessi vertano su argomenti distanti da castelli, cavalieri e legionari romani, ho sempre coltivato un certo fascino per il cosiddetto “Evo di Mezzo”, una sorta di affinità nostalgica. È per tale piacere intrinseco che mi sono recentemente approcciato a un testo riedito una decina d’anni fa da Franco Cardini[2]: Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione Francese. Storico formatosi nel secolo scorso, molto attivo in campo sociale e culturale, è forse uno dei più grandi medievisti del Paese (probabilmente anche d’Europa). Le sue analisi mirate, intellettualmente articolate e pregne di significato, sono capaci di costruire ponti tra il presente e il passato, alimentando quel tipo di pensiero critico capace di interrogare tanto la contemporaneità quanto i tempi andati. Quanto segue non è tuttavia un’analisi completa dell’opera, quanto di una sua porzione particolare. Prima di procedere è tuttavia necessario tornare al presente, quello di chi scrive. Durante un confronto un collega, in occasione dell’organizzazione di un gruppo di lavoro, ci si intrattenne per discutere sull’entità e la qualità del lavoro che stavamo presentando. Le parole pronunciate dal collega saranno sicuramente note, e probabilmente saranno state pronunciate da, a coloro i quali frequentano o hanno frequentato l’ambiente accademico. Parafrasando a memoria: “Queste cose servono affinché i nostri nomi circolino”.
Chiuso l’inciso, è bene tornare a Cardini, lasciandogli la parola (corsivo dell’autore):
Se il torneo rischia di far diventare realtà […] la bella fiaba dell’aventure cavalleresca […] esso non manca di risvolti pratici. Vi sono, intanto, i premi ai vincitori: vi sono i doni di vario tipo e a vario titolo, spesso cospicui; v’è la prospettiva d’incontrarsi con gente di riguardo, in grado di fornire ingaggi futuri e di sollevare comunque l’indigenza dei pauvres chevaliers, una categoria di subalterni della piramide feudo signorile che non è un’invenzione del romanzo [cavalleresco]; c’è perfino la possibilità d’interessare ai propri exploit una dama d’alto lignaggio, magari vedova […], e di potersi finalmente accasare, attaccando a un chiodo cintura e sproni dorati e continuando si a dirsi cavalieri e a portare abiti foderati di vaio e altre insegne della propria dignità, ma conducendo in realtà la vita del reniter [possidente che vive di rendita]. Accasamento e riposo costituiscono l’ambìto traguardo della maturità[3].
Si sarà probabilmente già colto il paragone su cui ci si vuole concentrare[4].
La descrizione del pauvre chevalier, al netto della differenza contestuale, calza perfettamente, forse sin troppo, con quella che si potrebbe fare del pauvre chercheur degli studia humanitatis. Non ci si riferisce (solo) all’assai poco romantico termine pauvre, quanto all’enunciazione di un’etica della “ventura” e della dipendenza sin troppo romanzata e accreditata come nobilitante dalla vulgata comune. E intanto lo spettro della flessibilità, il valore per eccellenza di chi vuol ingentilire la più rustica precarietà, si profila all’orizzonte: come il Vescovo Guglielmino d’Arezzo, a Campaldino, colmo di sicumera (e miopia) confuse la cortina dei palvesi[5] nemici con una cinta muraria, una cecità indotta e assimilata induce a non cogliere la minaccia che s’approssima pericolosamente. Ma procediamo con ordine nella decostruzione critica della similitudine appena evocata, cominciando innanzitutto con i dati statistici.
Sebbene il report 2022 di AlmaLaurea attesti un’occupazione pari al 90,9% dei possessori di un titolo di dottore/dottoressa di ricerca, la situazione risulta ben più complessa[6]. Lo stesso report fornisce dichiarazioni accessorie che consentono di esaminare più in prossimità la condizione precipua dei dottori/dottoresse nelle Scienze umane[7]. Innanzitutto, fuor dal valore medio poc’anzi esposto, solo l’83,9% degli/delle “umanisti/e” intervistati/e ha dichiarato la propria occupazione; ma esattamente cos’ha dichiarato? Il 12,4% degli/delle intervistati/e asserisce di possedere un contratto alle dipendenze a tempo indeterminato, l’11,6% un lavoro autonomo e l’8,4% una borsa post-doc, di studio o ricerca. La restante parte (67,6%), afferma di possedere assegni di ricerca o di studio e contratti non standard a tempo determinato; all’interno di questa percentuale sono considerati i/le parasubordinati/e e “altro”[8]. In questo stillicidio occupazionale, le esoteriche sigle potrebbero non dire nulla ai/alle non addetti/e, così come l’aggettivo “occupati/e” potrebbe indurre a credere che i soggetti figurino come lavoratori/trici stabili. Nulla di più lontano, purtroppo, dalla realtà.
Il comunicato ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca in Italia) 2022 tratteggia una situazione ben meno rosea, qualificando in maniera differente diciture e sigle dall’ambigua interpretazione[9]. È bene tenere a mente che sia l’AL Report 2022 che il manifesto ADI 2022 giudicano e interrogano una situazione che precede, anche di diversi anni, il piano a favore della ricerca istituito con i fondi PNRR. Piano che tenta d’organizzare una bonifica alle pianure morte della ricerca italiana, tentativo le cui premesse non sono poi così rassicuranti[10].
L’RTDa [Ricercatore a tempo determinato di tipo A], di durata triennale e senza alcun diritto ad una stabilizzazione in ruolo al termine del contratto, si qualificava come contratto a termine per rispondere alle necessità temporanee delle Università, mentre l’RTDb, che prevedeva alla fine del percorso la chiamata all’associatura, era riservato alla programmazione ordinaria della pianta organica delle Università. Da ultimo, la riforma introduceva l’assegno di ricerca.[…] se l’RTDb è rimasto un porto sicuro a cui pochi hanno potuto approdare, l’RTDa, a maggior ragione negli ultimi anni a seguito di una serie di piani straordinari di reclutamento a valere ora sui fondi PON ora sui fondi PNRR, è diventata una posizione non solo e non tanto di fragile inquadramento, quanto dalle prospettive assolutamente vaghe e inconsistenti: a fronte di tre anni di lavoro, sovente non resta in mano che un pugno di mosche. […] [N]egli ultimi dieci anni l’assegno di ricerca è divenuta la forma consueta di inquadramento del lavoro di ricerca post- dottorale. […] [L]’assegno, che consiste in un rapporto di lavoro parasubordinato e dal costo decisamente ridotto per il datore di lavoro – figurando come esente Irpef e soggetto solamente agli oneri previdenziali –, è apparso come il modo più conveniente per sostenere le attività di ricerca e di didattica degli Atenei. Inoltre, l’assegno aveva la non secondaria caratteristica di costituire un rapporto fortemente gerarchico tra il professore titolare del fondo a progetto su cui l’assegno era stato bandito e l’assegnista stesso, rinforzando quel ruolo di gatekeeping che un certo ordinariato ha sempre trovato particolarmente attraente, pur con tutte le conseguenze del caso sull’indipendenza dei giovani ricercatori, sulla qualità della loro ricerca e, sovente, come portato immediato di tali condizioni di vita e di lavoro, sulla loro salute mentale[11].
Sostanzialmente, ben più della metà degli/delle addottorati/e in materie umanistiche, “occupati/e”, figurano come possessori di contratti o assegni dalle garanzie e dalle prospettive assai labili, per non dire esplicitamente deboli e deficitarie. Tale contingenza fortifica esplicitamente una piramide accademica fortemente verticistica, depauperando l’università stessa, il mondo della ricerca e più ampliamente lo Stato, di una gran quantità di soggetti iper-specializzati, con una preparazione maturata in anni di studio a detrimenti, il più delle volte, di qualsiasi altro tipo di formazione. In maniera non troppo differente, questi/e specialisti/e spiantati/e ricordano coloro che, praticando l’arte della guerra sin dall’infanzia, non avevano che quell’elemento solo con il quale identificarsi. Un cavaliere era un guerriero, nato, formato e socialmente definito da quel ruolo.
Se il pauvre chercheur non è altri che il suo quasi omonimo venturiere medievale, la piramide feudo-signorile da allettare e di cui ghermire l’attenzione fa presto a manifestarsi nel miroir di un’Accademia che si erge a roccaforte di un privilegio in cui, tutto sommato, anche il nostro povero vuol entrare, se non altro come gregario. Le belle dame, i ricchi premi, i gran signori svestono gli abiti feudali per calzare i panni di più contemporanei ordinari e ordinarie, di istituzioni granitiche e farraginose delle cui cerchie, con ogni mezzo, far parte. Come il cadetto, armato solo di armatura, scudo, lance e cavallo (spesso presi in prestito), sfrutta le occasioni fornite dai tornei per accattivarsi un signore o una protettrice, il chercheur solitario affronta la sfida lanciata da Fellowship, sporadici gruppi di ricerca (che a loro volta forniscono assegni di breve durata), seminari, convegni e Call for Papers per mostrare le sue doti, le sue abilità maturate dopo anni di formazione. E lo fa armato/a di una ricerca costruita, spesso, “prendendo in prestito” del tempo a quello usualmente necessario per portare avanti un lavoro, magari esterno, necessario ai propri basilari e umani bisogni.
Tornei e giostre da cui pochi escono vincitori, costringendo i restanti a muoversi verso la nuova manifestazione, nutriti dalla speranza, o illusione, di poter trionfare alla prossima pugna d’arme. E mentre s’accresce lo stuolo dei pauvres chercheurs, coloro che ottengono un ingaggio, in realtà, non fanno in tempo a stringerlo tra le mani che già devono curarsi d’ottenerne un successivo. L’assegno o la borsa diventano il proverbiale “pugno di mosche”, utile a riempire curricula e a condurre a spizzichi e bocconi una nuova ricerca da ripresentare alla prossima giostra o torneo d’armi. Il ciclo infinito qui delineato, che vede nell’acquisizione di una cattedra o di una stabilità accademica il suo fine ultimo (un novello rentier universitario), trasforma il/la ricercatore/-trice in un/a lavoratore/-trice “usa e getta”: portando avanti la metafora, un mercenario privo di stabilità. Lungi dallo scrivente attestare la necessità di una forma di “fedeltà accademica”, si vuole piuttosto puntare l’attenzione sulla fondamentale precarietà e instabilità di un sistema condotto e basato su questi parametri “feudali”, piramidali ed emanativi.
Fino ad ora, il parallelo impiegato potrebbe dare l’illusione di essere un mero espediente retorico, un virtuosismo barocco limitato all’interpretazione della realtà in una chiara ottica antagonistica. Nulla di più sbagliato. Né tantomeno si vuol porre in essere la massima atemporale della Historia magistra vitae. Il parallelo giova piuttosto a sottolineare e palesare quanto questa instabilità gravi, innanzitutto, sulla qualità della ricerca tout-court, oltre che a rivendicare il diritto a un J’accuse rivolto a modelli ammantati di un romanticismo che nascondono le problematiche psicologiche, sociali ed economiche di un numero non indifferente di persone che hanno fatto della ricerca, della divulgazione e dell’insegnamento il proprio obiettivo di vita. Perché del resto, il nomadismo del/la ricercatore/-trice è spacciato per uno strumento indispensabile per l’accrescimento personale e la qualifica professionale.
Recentemente, l’agone pubblico italiano ha avuto tra i suoi protagonisti il concetto di lavoro flessibile. Di seguito una generale presentazione:
si può parlare di flessibilità interna e di flessibilità esterna. La prima allude ai margini di libertà di cui gode il datore di lavoro per adattare e variare gli orari di lavoro così come la mobilità del personale in seno all’organizzazione. La seconda riguarda invece la possibilità di modulare la numerosità del personale a seconda delle fluttuazioni della domanda cui è confrontata l’impresa; si tratta cioè della facoltà di espellere il personale divenuto sovrabbondante in seguito a un calo dei volumi di produzione e di rinviarlo sul mercato del lavoro (licenziamenti, soppressione di posti non mantenuti in organico, prepensionamenti, ecc.)[12].
La flessibilità lavorativa, concetto figlio di una teoria neoliberista efficientista e post-fordista, tende a trasformare il/la lavoratore/-trice in “imprenditore/-trice di sé stesso/a”, svincolandosi da legacci giuridici altrimenti obbligati dall’impiego di un contratto tipico, standard e a tempo determinato. Attraverso lo strumento “atipico”, il datore di lavoro si garantisce la possibilità di liquidare il/la dipendente “autonomo/a” non appena questi risultasse essere non più indispensabile all’azienda[13]. Il paragone tra quanto prima esposto circa la situazione universitaria degli/delle umanisti/e e ciò che ora si è detto rispecchia pienamente l’atteggiamento assunto dall’accademia nei confronti dei/delle ricercatori/-trici, sino alla più recente, e dubbia, riforma: i chercheurs risultano quindi estremamente e costantemente esposti a un continuo turn-over occupazionale de-professionalizzante[14]. Difatti, una delle più spiccate conseguenze della flessibilità (ancor più lampante e preoccupante se applicata a lavoratori e lavoratrici altamente professionalizzati), è la precarietà della professione e della vita privata a cui i/le lavoratori/-trici vanno incontro: la gestione della propria “produzione” accademica, la “vendita” delle proprie facoltà sottopongono il/la lavoratore/-trice a un crescente stato d’insicurezza di cui non beneficia né la propria professione, né la propria vita privata e psicologica[15]. Se tale situazione è denunciata come preoccupante da una decina d’anni a questa parte, l’onda lunga pandemica e le sue conseguenze psico-patologiche non fanno che incrementare esponenzialmente tali insicurezze[16]. Laddove la cura da imporre dovrebbe essere la stabilità, ciò che viene spacciato per panacea continua a prendere il nome di flessibilità.
È bene qui poi aggiungere che per ricercatori/-trici e dottorandi/e le conseguenze pandemiche non solo si siano estese ben oltre la durata del lockdown sancito e prorogato tramite D.P.C.M. in Italia. Difficoltà all’accesso a fondi archivistici e biblioteche hanno intaccato ricerche di ogni tipo, così come l’impossibilità di prender parte a quelle “giostre d’armi” tanto importanti, purtroppo, per un tentativo d’inserimento nei quadri accademici tanto nazionali quanto, almeno, europei[17]. Una cascata di eventi ha messo a dura prova la resistenza umana e, secondariamente, la qualità dei lavori prodotti; la consapevolezza di muoversi in un mondo imprenditoriale fortemente precarizzato, in più, non ha certo facilitato il lavoro di coloro consapevoli di dover presentare un “prodotto fallato”, più o meno condizionato da eventi tutt’altro che prevedibili o gestibili.
Se la precarietà accademica risulta essere una realtà dalla quale volersi tenere alla larga, per disgusto, paura o perché effettivamente deprecata ab origine, l’umanista non trova certo una strada di più facile percorrenza nella scuola pubblica. A fronte dei continui cambi governativi, con conseguenti modifiche all’iter d’accesso all’insegnamento, la recente promulgazione di nuove disposizioni non fanno ben sperare: il decreto leggere n. 36 del 30 aprile 2022, con un colpo di spugna, ha cancellato quanto sino ad ora fatto, obbligando l’acquisizione di 60 cfu (crediti formativi universitari[18]) alla “modica” cifra di 2.500 euro. Il tutto senza alcuna garanzia d’inserimento in graduatorie di sorta.
All’orizzonte del/la dottore/dottoressa di ricerca i palvesi che si scorgono in lontananza, scambiati per mura, diventano menhir insormontabili dietro i quali s’annidano gli spettri dell’insicurezza e della svalutazione. Come la venture del pauvre chevalier poteva sempre andare a concludersi in Terrasanta, senza certezza di acquisir ricchezza o fama, ma solo morte e fame, il pauvre chercheur può sempre imbarcarsi (non necessariamente a Brindisi[19]) e veleggiare verso nuove forme di precarietà. A cambiare è solo il Dicastero per il quale militerà nella speranza di una mansione. Ciò che resta è l’instabilità di fondo che accompagna la carriera di un/a ricercatore/-trice, andando a indebolire tanto la sua produzione accademica quanto, soprattutto, la sua personale sicurezza, la sua fiducia. Demotivazione, disinteresse, disqualifica del proprio lavoro giovano solo a minare le fondamenta di un sano lavoro di ricerca e produzione scientifica, laddove, nel migliore dei mondi possibili (sicuramente non questo) dovrebbe essere animato da quella sicurezza che spinge ad “avventure” teoriche giustificate dalla consapevolezza di avere, dietro di sé, una base sicura e salda. A ben vedere, mi si conceda il prestito trans-disciplinare, le basi ideali della ricerca somigliano molto da vicino a quello che la psicologia bowlbyana definisce “Attaccamento di tipo B”, ovvero sicuro. Senza dilungarsi in argomenti che esulano, per competenze, tempo e facoltà, da quelle che si dispone, basti giusto designare questo tipo di attaccamento, B/sicuro (secure), come modalità di affezione del/della bambino/a alla figura materna caratterizzato dalla sicurezza di poter disporre di un porto sicuro, che dà valore al soggetto, dal quale potersi dipartire per esplorare/esperire l’ambiente circostante[20]. Fermandosi a questa dichiarazione, alla luce di quanto sino ad ora esposto, tutto può fare il/la ricercatore/-trice eccetto che fondare la propria crescita, umana e professionale, su basi che sono vagamente sicure solo per una ristretta minoranza di fortunati.
Questo evidentemente comporta una grave carenza di democraticità della ricerca o almeno di un corretto accesso a essa, dato il sistema delle sovvenzioni universitarie profondamente implicato nello squalificare atenei meno “competitivi” (quindi laureati/e e dottori/dottoresse di ricerca che in essi studiano). Il problema, del resto, non è approcciato solo da coloro che, concludendo il triennio dottorale, tentano d’approcciarsi alle fasi successive della ricerca; lo stesso accesso ai concorsi dottorali è, se non propriamente elitario, certamente condizionato da una serie di fattori che hanno solo parzialmente una connessione diretta con la preparazione del singolo individuo. Basti pensare la scarsità di fondi riservati alle borse di studio dottorale, supporto indispensabile a un/a giovane ricercatore/-trice che compie i suoi primi passi; queste garanzie sono non solamente poche, tanto da necessitare l’integrazione di fondi privati, ma spesso condizionate dalla natura dell’ateneo e dalla sua prosperità. Il tutto, ovviamente, tenendo da parte l’improponibile strumento del “dottorato-senza-borsa”, vera e propria espropriazione del lavoro intellettuale del/la candidato/a che, oltre a essere soggetto alle scadenze di un/a dottorando/a borsista dovrà in più provvedere al proprio mantenimento.
Tali mancanze strutturali comportano, e in parte sono strettamente dipendenti, la sopravvivenza delle “piramidi feudo-signorili” più o meno dichiarate. Siamo di fronte alle tanto vecchie quanto ancora ben vive “Scuole”, organismi ufficiosi ma tutt’altro che immaginari che polarizzano, all’interno della propria stessa cerchia, indirizzi e interpretazioni. È chiaro come non ci si riferisca alle scuole di pensiero o interpretative pure e semplici, quanto alle filiazioni professionali le quali, spesso, controllando determinate cattedre, sanciscono un regime vassallatico, tossico il più delle volte, tra professori/professoresse e una ristretta cerchia di assistenti, avviluppati al mentore/senior e ai beneficia che da questi promanano. Una druzhina[21] un tempo composta da eguali, adesso profondamente suddivisa in gerarchie verticalistiche e oligopolistiche.
Reintegrare la complessità
Tanto lo svilimento della pluralità all’interno dell’accademia, quanto la formale seppur non onnipresente subalternità a una “Scuola”, causa irrimediabilmente la sterilità di alcuni filoni: rivoli altrimenti floridi divengono rigagnoli non troppo copiosi, ancorati alla propria effimera sicurezza per timore di esplorare possibilità che né i fondi finanziari né i vertici consentono di approcciare. È così che viene a perdersi quella complessità dell’analisi, quella parcellizzazione che cozza con una trans-disciplinarietà da tutti/e evocata e di cui si scorgono tuttavia assai pochi esempi.
Se competitività ed egotica esaltazione del sé (anche necessaria) animavano le partecipazioni cavalleresche ai tornei d’un tempi, non meno sull’acceleratore dell’esaltazione dell’Io spinge la pratica neoliberista della concorrenzialità tipica della dottrina dell’“auto-imprenditorialità” prima esposta.
Il neo-liberismo delinea la trama di un nuovo Grande-Racconto […] il suo verbo non è più il laissez-faire, ma il tenere la rotta in direzione di un adattamento progressivo all’economia e alla divisione del lavoro mondializzate come criterio di buon governo[22]
Ritorna il concetto di flessibilità e di adattamento, ma la critica alla forma mentis neoliberale si estende anche su di un punto che abbraccia assieme la democraticità e la complessificazione. Entrambe subiscono, secondo gli autori del testo, un doppio attacco da due forme narrative opposte e insieme alleate nello smantellamento di uno sguardo complesso al reale: populismo e individualismo. Se il primo rifiuta l’analisi serrata, uno studio della realtà che vada oltre le distinzioni dicotomiche e le facili risposte a domande d’ordine politico o sociale, la complessità come “modo di rapportar[si] alla realtà”[23], il secondo recide, perorando la causa dell’individualismo concorrenziale e aggressivo, l’anello ricorsivo che lega democrazia e Stato di diritto, Stato di diritto e Stato sociale[24]. Non ci si inoltrerà oltre nello sviluppo teorico che fanno gli autori, ma ci si concentrerà sul concetto di complessificazione. Tra le analisi di partenza di Ceruti e Bellusci, risiede tutto il lavoro di Edgar Morin e la sua apologia del pensiero complesso[25].
Della meravigliosa riflessione teorica del filosofo e pedagogo d’Oltralpe, portatrice di un messaggio a un tempo pluralizzante e stravolgente del pensiero e dell’approccio al mondo, vorrei portare maggior attenzione su quello che lui definisce essere il ruolo dell’università. Un ruolo che è capitale nella società e insieme ambivalente: adattarsi alla società e culturalizzarla, modernizzare la cultura ma anche creare una cultura per la modernità[26]. L’autore denuncia (lo fece vent’anni fa ma le cose non sono molto mutate) un sovra-adattamento della cultura alla modernità, all’economicismo di un insegnamento sempre più particolarista, disgiunto e non dialogante, fortemente acritico e parcellizzato; è su questa denuncia che Morin, specie in appendice al testo, sviluppa un principio della trans-disciplinarietà: uno strumento per rispondere alla complessità del mondo senza rinserrarsi dietro barriere disciplinari, ma gettando ponti e terreni di confronto tra discipline e metodologie differenti, integrandole. Il principio che anima questa pulsione è lo stesso: complessificare la realtà – lungi dal sovra-razionalizzarla – indica piuttosto una necessità di integrare visioni e interpretazioni differenti, che guardino al particolare e al generale in un continuo cambio di visuale[27]. La critica del filosofo è anche indirizzata al ruolo dell’insegnante:
Il carattere funzionale dell’insegnamento riduce l’insegnante a un semplice impiegato […] [L]’insegnamento deve ridiventare non più solamente una funzione, una specializzazione, una professione, ma un compito di salute pubblica: una missione[28].
Assenza di complessificazione, iper-specializzazione, professionalizzazione dell’insegnamento legata a ottiche economicistiche: tutto riconduce alla sostanziale, e tristemente attuale, sparizione delle istituzioni universitarie, e dei suoi dibattiti, dalla sfera pubblica. Il famoso arroccamento accademico delle cittadelle universitarie, un incastellamento, ancora una volta, de facto, non solamente ha privato l’Università del ruolo di conservazione/diffusione della sapienza in essa conservata, maturata e re-interpretata: l’allontanamento accademico dal reale, l’incastellamento non troppo anacronistico, di alcune istituzioni più di altre, dall’agone pubblico ha sostanzialmente rafforzato le due differenti tendenze avverse alla complessificazione. Se è assente il dialogo tra populismo e sapere accademico (distanza ingiustificabile se non tramite una forma d’elitismo sprezzante), l’individualismo neoliberista penetrante in ambiente universitario è di contro figlio, legittimo o meno che sia, di un silenzioso matrimonio tra l’istituzione e l’ideologia.
Le nuove forme della divulgazione e della mistificazione
L’assenza di un dibattito e di una circolazione della conoscenza genera mostri. Aberrazioni divulgative ego-centrate, una parcellizzazione atomistica del sapere storico che trasforma la complessità in “pillole di storia” della durata di due minuti scarsi buone a far colpo sul/la malcapitato/a di turno. Il nuovo modo di fare storia “social” non è altro che la quintessenza della semplificazione e dell’ego-centrismo trasbordante, ricco di contenuto ma scarso di criticità. Se da un lato, innegabilmente, i nuovi strumenti di divulgazione hanno favorito un’apertura della conoscenza, almeno in termini potenziali, dall’altro tale apertura sembra essersi sempre più rivolta alla “nozione” e non al “processo”. Lo scambio veloce di informazioni, spesso superficiale, d’altronde scoraggia la costruzione stessa di un discorso che non guardi a una notizia ma al processo stesso di acquisizione di un’informazione. L’evento si essenzializza, divenendo un particolare di colore, a volte anche “piccante”, privato di un contesto che ne restituirebbe non solo la complessità, i legami, ma anche le motivazioni e le cause. Ciò che emerge è una narrazione attenta alla monade singola e non alla rete ermeneutica e metodologica che precede, segue e avvolge il fatto in sé. Da un lato, i contenitori mediatici di più ampia divulgazione offrono un sapere raccogliticcio, episodico, falsamente antiquario[29], concentrato sulla curiosità de-contestualizzata, non meno usa-e-getta di uno di quegli assegni di ricerca “a consumo” definiti nelle pagine iniziali; dall’altro, è sorta grottescamente l’immagine dello/a storico/a quale show-man, teoricamente onnisciente, infallibile e più o meno velatamente e acriticamente ascoltato/a. Il legame tra individualismo sapere parcellizzato è più stretto di quanto si possa intendere; la ricerca storica non è compiuta dagli sforzi del singolo individuo, né tantomeno dalla somma dei singoli contributi di un/a singolo/a accademico/a. Gli sforzi interpretativi, ermeneutici in senso ampio, si costruiscono attorno a “tavole rotonde”, seminari e scambi tra specialisti/e che, se da un lato fortificano l’ideale elitario dell’accademia, dall’altro permettono una sintesi in costante evoluzione dei risultati acquisiti, una loro elaborazione e rielaborazione. I processi, non gli episodi, si costruiscono attorno a una collegialità. È dal processo di costruzione critica che una divulgazione dovrebbe ripartire, rilevando non solamente il cuore dell’attività ma anche il suo senso di collegialità, di una comunità e di un gruppo dove ogni elemento è funzionale alla riuscita dell’intero lavoro.
Chiaramente, tale collegialità e tale costruzione comunitaria non emerge né dalla divulgazione “social” (costruita su narrazioni individuali), né da quella dei grandi personaggi pubblici. Beninteso, spesso questa visione grottesca è il più delle volte alimentata dal mezzo informativo e dall’audience più che dall’effettivo volere del/della divulgatore/-trice in questione il/la quale, peraltro, si ritroverebbe a essere vittima della sua stessa fama. Per non parlare poi del sempiterno “sfruttamento” della Storia negli agoni politici e persino nella legittimazione di scelte politiche tutt’altro che felici e fortunate.
Uno degli esempi che mostra la pericolosa mistificazione e manipolazione di importanti processi e fatti storici è certamente la radicata convinzione di uno “Scontro di Civiltà” tra Oriente e Occidente, variamente classificati, che affonda le sue radici nel saggio di Samuel Huntington[30], a posteriori il teorizzatore della legittimazione dell’intervento statunitense in Medio Oriente e Afghanistan a seguito dell’attentato del 2001. Il controverso concetto di cui è portatrice l’analisi del politologo permea molte delle discussioni, animando gli interventi di attivisti/e e politici/-che in maniera trasversale. Da teoria caldeggiante pratiche imperialiste in termini più o meno espliciti, diviene ideologia, interpretazione pervasiva del reale. L’immagine rievoca in maniera sinistramente efficace, per quanto ironica, la lettura che il filosofo Slavoj Zizek fece del film They Lives: il protagonista della pellicola datata 1988, grazie all’ausilio di un paio di occhiali particolari (che il filosofo assimila alla critica dell’ideologia), riesce a vedere quanto essa cela. La realtà Vera delle cose[31].
È davvero necessario partire da una similitudine metastorica per criticare lo scollamento dell’accademia dal reale? Si, o non si sarebbe qui. La figura romantica del cavaliere ha da sempre assurto al compito di ammantare del porpora e dell’ora della leggenda mitica una realtà assai più concreta e meno gentile, una realtà dei fatti che, in un anello ricorsivo, ha legato la realtà alla sua interpretazione, condizionandola. Da venturiero e mercenario, il cavaliere errante è divenuto nobile portatore di pace nella cristianità; da bandito e combattente e divenuto umile e devoto crociato, imbevuto di pietà e amor cortese. Mito e realtà si sono fusi assieme, sino alla parossistica quanto geniale figura del Don Quijote di Miguel Cervantes[32]. La decomposizione di una realtà nobiliare oramai sfaldata, impoverita, invaghita di sé stessa e della propria ideologia mistificatrice del reale, segna il tracollo di una classe sociale ambiguamente imbricata in un mondo che a un tempo la rigetta e la accoglie, riplasmandone i valori, le priorità e i doveri. Come l’epica cavalleresca di de Troyes, Ariosto e Tasso cantarono le virtù di una classe sociale arroccata, Cervantes ne trasmette gli scricchiolii, innanzitutto nella sua epica fondante, divenuta farsa nostalgica.
Il pauvre chercheur ha trasformato il suo nomadismo, la sua venture mercenaria alla ricerca di un ingaggio dietro il velo ideologico di una formazione fantasmaticamente potenziale, illuso dalla possibilità che volatilità significasse acquisizione. Imbevuto dei suoi stessi miti (e di quelli lui forniti), l’accademico/a sogna la carriera da cavaliere errante, o da condottiero, non notando come la mancanza di una solidità, spacciata per provinciale immobilismo, sia il fondamento per una ricerca più profonda, aperta, socialmente utile e integrata nel territorio. Si badi bene: persino lo/a studente/studentessa deve avere la possibilità di muoversi, di allargare la propria rete di collaborazioni e conoscenze, umane, tecniche e scientifiche: l’isolamento è nemico dell’integrazione critica della sophia. Il rischio tuttavia di confondere apertura ermeneutica del soggetto con la sua deriva cieca, a quanto pare, è più che evidente. La stessa Università, sempre meno polo di attrazione e diffusione e sempre più nodo di concentrazione sterile e repulsione, aleggia sulla società slegandosi dai suoi agoni, concedendo di tanto in tanto qualche piccola penetrazione intellettuale fine a sé stessa; alle volte dando in pasto alla gabbia mediatica professori e professoresse più o meno accreditati/e travolti/e da un’esasperante adorazione che rischia di inglobarli/e e coprirli/e, a dispetto di tutte le loro buone intenzioni. Sempre che ne possiedano: in caso contrario essi/elle divengono geo-politici/poliche o tecnici/tecniche di punta di questo o quel serraglio. Intanto orde di precari/e chiedono di che sopravvivere ai nobili signori di mamma-accademia, sgomitando per quell’unica borsa o quell’unico assegno per poi, una volta dentro (se fortunati/e), sostituire la precedente ansia di conquista con il terrore viscerale di una permanenza nei circuiti instabili universitari. Tutto è divenuto tortuoso, iper-specializzato, distante e atomizzato (come le persone d’altronde), persino la scuola ha complicato oltre ogni ragionevole giustificazione i suoi percorsi.
Cosa resta al ricercatore/-trice? Certamente serrare il cinturone, inforcare le staffe e galoppare nella speranza di colpire e non essere colpito. Insomma, protrarre la realtà. Non v’è biasimo o retorica, purtroppo l’essere umano, ricercatore compreso, ha il brutto vizio di voler mangiare e non volersi bagnare quando piove, alle volte persino di volersi divertire. Scelta legittima, che l’onestà intellettuale impedisce allo scrivente di criticare.
E poi c’è la possibilità di spogliarsi dell’abito del cavaliere e seguire le opere del Santo d’Assisi. Nessuna pubblicità filo-clericale, si perdoni anzi l’irriverenza blasfema; farsi monaco da che si era cavaliere implicava un totale rovesciamento e rifiuto dei valori della cerchia elitaria, l’uscita permanente da quella rocca cinta da mura che è l’arroganza universitaria per cingere in mano le redini di quella riforma da Morin paventata. Entrare nel dibattito privi della vanagloria arrogante, portando non aneddoti né fascino, ma storie, critiche, visioni e interpretazioni. Ricostruire l’aspetto pubblico, sociale, dell’università e del/della ricercatore/-trice; creare ponti interdisciplinari traendo a sé chiunque abbia voglia di complessificare il reale. Ricordare all’Università il suo ruolo, tra un resoconto dei/delle laureati/e “prodotti/e” e una compilazione annuale delle spese commerciali. Al di là della retorica pseudo-francescana, un investimento maggiore nel ruolo sociale dell’accademico (dal/dalla laureando/a al/alla ricercatore/-trice), potrebbe non solamente liberare dai vincoli del settarismo specializzato il sapere, permettendogli di circolare in forme più complesse. Contemporaneamente potrebbe (dovrebbe) restituire alla società un servizio che è pubblico: non solo nella dimensione in cui le porte sono aperte a tutti/e, ma anche in quella che ciò che dentro vi si discute raggiunge l’esterno, venendo restituito alla comunità.
- A scanso d’equivoci, la passione per la materia storica può essere sobillata da differenti input. Ma reputo piuttosto inverosimile che chi, come il sottoscritto, ha nutrito tale desiderio dal periodo scolastico elementare, lo abbia fatto leggendo Federico Chabod, Marc Bloch, Fernand Braudel o Theodor Mommsen tra un latte al cioccolato e un episodio di uno dei tanti anime, crudi e violenti, trasmessi da emittenti primarie o secondarie. Chiunque affermi l’inverso, o retrodata la nascita del proprio interesse o ha avuto un’infanzia, a mio modesto parere, non propriamente “normale”. ↑
- Franco Cardini, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione Francese (Bologna: Il Mulino 2013). L’edizione originale dell’opera risale al 1982, pubblicata per i tipi Sansoni. ↑
- Ivi, 34–35. ↑
- Premetto che tale similitudine investe l’ambiente accademico storico-umanistico di cui faccio parte: lungi dal sottoscritto assumere uniformemente le stesse condizioni per ambiti scientifici differenti. ↑
- Ampi scudi solitamente impiegati sui campi di battaglia per nascondere tiratori o picchieri. ↑
- AlmaLaurea, Condizione occupazionale dei Dottori di ricerca. Report 2022 (d’ora in poi AL Report 2022), 4. On line presso: https://www.almalaurea.it/sites/default/files/2022–08/dottori_occupazione_report2022.pdf. L’indagine si basa su un’indagine compiuta su 5.255 addottorati nell’anno 2020 (circa il 68% del totale italiano). Di questi, solo l’81,4% ha dato l’assenso alla pubblicazione dei dati: Ivi., 3. “Sul piano nazionale, ad oggi, non sono disponibili indagini sistematiche sugli esiti occupazionali dei dottori di ricerca che permettano una comparabilità con i risultati ottenuti dall’indagine di AlmaLaurea”; lo studio prende come termine di paragone il dato ISTAT 2018 sull’inserimento professionale dei dottori di ricerca del 2014 e del 2012, Ivi., 5. ↑
- Tra gli addottorati consultati essi raggiungono la percentuale del 17,8%. Ivi., 4. ↑
- Ivi., p. 5. L’”altro” non è chiaramente specificato, seppur sia ipoteticamente comprensibile come occupazione senza contratto. ↑
- ADI, Niente si fa con niente: manifesto per un lavoro di ricerca stabile e dignitosamente retribuito, 2022 (d’ora in poi ADI 2022). On line presso: https://dottorato.it/content/niente-si-fa-con-niente-manifesto-un-lavoro-di-ricerca-stabile-e-dignitosamente-retribuito. ↑
- ADI 2022: “A fronte di un’impostazione generale positiva che recepisce la necessità di una profonda destrutturazione del modello precarizzante di reclutamento definito dalla Riforma Gelmini, la recente riforma del pre-ruolo presenta diverse problematiche che in sede attuativa rischiano di inficiarne le potenzialità. Sul fronte dei contratti di ricerca […] la contestuale imposizione di un tetto di spesa pari alla «spesa media sostenuta nell’ultimo triennio per l’erogazione degli assegni di ricerca» finisce per impossibilitare Atenei ed enti di ricerca a bandire un numero di posizioni pari a quelle dapprima previste per gli assegni. Tale circostanza appare ad oggi ulteriormente aggravata da una disciplina transitoria confusa, che risulta aver ulteriormente ostacolato Atenei ed enti di ricerca nell’implementazione delle nuove previsioni, e da forti ambiguità sull’utilizzabilità delle borse di ricerca (forma di finanziamento della ricerca estremamente precaria e priva delle seppur minime garanzie già previste per gli assegni, tra cui in primis le tutele previdenziali) come sostitute degli assegni. Se la riforma – nel tentativo di evitare una eterogenesi dei fini tale da determinare un incremento, e non una riduzione, della precarietà all’interno del mondo della ricerca – sembrava inizialmente aver introdotto il divieto di bandire borse di ricerca in favore di dottori di ricerca (si veda il comma 6 vicies-ter dell’art. 14 del d.l. n. 36 del 2022), il Ministero dell’Università e della Ricerca, così come diverse Università italiane, sembrano essersi ormai orientate nel senso del mantenimento di tale facoltà, con il rischio che la borsa rappresenti lo strumento con cui mantenere lavoro sottopagato e ricattabile all’interno della ricerca italiano.” ↑
- Ibidem. ↑
- Luca Marsi, “Flessibilità e precarietà del lavoro nell’Italia del XXI secolo”, Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000, 2010, 348. ↑
- Ivi., 352. ↑
- Sul legame tra precarietà e flessibilità, vd.: Mario Aldo Toscano (a cura di), Homo instabilis. Sociologia della precarietà (Milano: JacaBook 2007); Richard Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale (Milano: Feltrinelli, 2000 [1998]). ↑
- Luca Marsi, “Flessibilità e precarietà”, 354. ↑
- https://www.humanitas-care.it/news/covid-19-attenzione-anche-alla-dimensione-psicologica/. Nell’articolo sono presenti i collegamenti agli studi in proposito. ↑
- La proroga trimestrale garantita, tramite DL 41/2021, ai dottorandi del 34°, 35° e 36° ciclo, gravemente colpiti nel loro lavoro dall’emergenza pandemica è stata assai poca cosa a fronte dell’effettiva chiusura (o dell’apertura a regime ridotto) d’archivi, biblioteche e laboratori. ↑
- Si tratta di crediti che vanno ottenuti a prescindere dalla facoltà frequentata dal candidato all’insegnamento. Viste le modalità di acquisizione, poi, la formazione (pedagogica, psicologica, antropologica, ecc.) è molto superficiale, non fornendo i mezzi per approcciarsi in maniera edificante al ruolo di insegnante. ↑
- Il porto pugliese fu uno dei luoghi di partenza dal quale i pellegrini s’imbarcavano, armati o disarmati, per raggiungere la Terrasanta. Qualora non preferissero altri porti, quali Messina, o non decidessero d’affrontare il percorso via terra, passando dai Balcani e dai territori dell’Impero romano d’Oriente. Nell’abbondantissima messe documentaria sul tema, si segnalano alcuni testi senza alcuna pretesa di esaustività: Franco Cardini, Studi sull’idea di crociata (Milano: Jouvence, 2013 [1993]); Id., Antonio Musarra, Il grande racconto delle crociate (Bologna: il Mulino, 2019); Amin Maalouf, Le crociate viste dagli arabi (Milano: La Nave di Teseo, 2020 [1983]). Christopher Tyerman, Le guerre di Dio. Nuova storia delle crociate (Torino: Einaudi, 2017 [2006]). ↑
- La teoria psicologica dell’attaccamento ha le sue radici nelle discussioni post-freudiane sorte nella disciplina nel secolo scorso. A gettare le basi di una teoria in continua trasformazione e affinazione metodologica, fu lo psicologo britanni John Bolwby; tale teoria, riassumendone i caratteri generali, si fonda sull’influenza che ha, nello sviluppo psicologico ed emotivo dell’infante, il rapporto maturato con la figura accudente durante i primi anni di vita. Per una più esauriente, complessa e integrata esplicazione, vd: Grazia Attili, Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. Normalità, patologia, terapia (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004). ↑
- La druzhina (slava) o il comitatus (romano-germanico) fu un nucleo di guerrieri, identificantesi come uomini liberi e dunque con il diritto di portare le armi, la cui traduzione letterale ricorda il concetto di “famiglia”. Inizialmente, al principio del periodo definito Alto Medioevo (tra il VI e il X secolo, circa) i membri di una druzhina erano guidati da un capo considerato primus inter pares. Col passare dei secoli, seppur l’egualitarismo teorico sopravvisse, quello pratico vide effettivamente una lenta disgregazione socio-economica nonché politica. Franco Cardini, Quell’antica festa crudele, 23–65. Michel Foucault affida alla penna e all’astio di Boulainvilliers un’aspra ingiunzione e insieme un’amara nostalgia ai tempi che furono, ove il re era ben lungi dal definirsi assoluto, vd. Michel Foucault, Bisogna difendere la società. Corsi al Collège de France (1975–1976), (Milano: Feltrinelli, 2020 [1997]). ↑
- Mauro Ceruti, Francesci Bellusci, Abitare la complessità (Milano – Udine: Mimesis, 2020) 102. ↑
- Ivi., 101 ↑
- L’impossibile coesistenza tra le due forme di Stato è tutt’altro che scontata: lo Stato di diritto è intrinsecamente fondato su una forma di violenza (o di minaccia di violenza) che ha le sue radici nel pensiero hobbesiano. L’individuo ed i suoi diritti di possesso si pongono a fondamento del contratto sociale e della legittimità stessa del potere. Lo Stato Sociale, pur non ignorando l’autonomia e i diritti fondamentali dell’individuo, pone in questione la sua autonomia, contenendone le libertà a fronte di una più spiccata e pervicace partecipazione dello Stato nei momenti sociali. Il principio dell’anello ricorsivo è un principio di causalità circolare secondo il quale i prodotti e gli effetti sono essi stessi produttori e cause di ciò che li produce. Non si può sfaldare lo Stato sociale senza sfaldare lo Stato di diritto, quindi la democrazia. Ivi, 65, 105. ↑
- Edgar Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero (Milano: Raffaello Cortina Editore, 2000 [1999]). ↑
- Ivi., 86–87. ↑
- Ivi., 111–124. Una risposta a tale necessità giunse dalla metodologia di ricerca e produzione scientifica detta “microstoria”. Per affrontare i nodi del problema, che qui non possono essere eccessivamente discussi, si rimanda, anche in sede bibliografica, al recente saggio sul tema: Francesca Trivellato, Microstoria e storia globale (Roma: Officina Libraria, 2023). ↑
- Edgar Morin, La testa ben fatta, 106. ↑
- Dico falsamente perché, sebbene l’antiquaria per secoli sia stata considerata in antitesi alla filosofia della storia, ha gettato di contro le basi per un sapere concreto, fondato su documenti e tutt’altro che parcellizzato, settoriale o episodico. Sul tema, un importante contributo in Carlo Ginzburg, La lettera uccide (Milano: Adelphi, 2021) 87–141. ↑
- Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo Ordine Mondiale (Milano: Garzanti, 2000 [1996]). ↑
- L’esegesi della pellicola They Lives, scritta e diretta da John Carpenter, fa parte del docu-film del 2012 scritto e diretto dalla regista Sophie Fiennes e interpretato da Slavoj Zizek, The pervert’s Guide to Ideology. ↑
- Miguel de Cervantes, El Ingenioso Hidalgo Don Quijote de la Mancha, pubblicato in due volumi usciti nel 1605 e nel 1615. ↑
ADI, Niente si fa con niente: manifesto per un lavoro di ricerca stabile e dignitosamente retribuito, 2022.
AlmaLaurea, Condizione occupazionale dei Dottori di ricerca. Report 2022.
Attili, Grazia Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente. Normalità, patologia, terapia, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2004.
Cardini, Franco, Quell’antica festa crudele. Guerra e cultura della guerra dal Medioevo alla Rivoluzione Francese, Bologna: il Mulino, 2013.
Cardini, Franco, Studi sull’idea di crociata, Milano: Jouvence, 2013.
Cardini, Franco e Musarra, Antonio, Il grande racconto delle crociate, Bologna: il Mulino, 2019.
Ceruti, Mauro e Bellusci, Francesco, Abitare la complessità. La sfida di un destino comune, Milano – Udine: Mimesis, 2020.
Foucault, Michel, Bisogna difendere la società. Corsi al Collège de France (1975–1976), Milano: Feltrinelli, 2020.
Huntington Samuel P., Lo scontro delle civiltà e il nuovo Ordine Mondiale, Milano: Garzanti, 2000.
Maalouf, Amin, Le crociate viste dagli arabi, Milano: La Nave di Teseo, 2020,
Marsi, Luca, “Flessibilità e precarietà del lavoro nell’Italia del XXI secolo”, Letteratura e azienda. Rappresentazioni letterarie dell’economia e del lavoro nell’Italia degli anni 2000, 2010; 347–378.
Morin, Edgar, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano: Raffaello Cortina Editore, 2000.
Sennett, Richard, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano: Feltrinelli, 2000.
Toscano, Mario Aldo (a cura di), Homo instabilis. Sociologia della precarietà, Milano: JacaBook, Milano 2007.
Trivellato, Francesca, Microstoria e storia globale, Roma: Officina Libraria, 2023.
Tyerman, Christopher, Le guerre di Dio. Nuova storia delle crociate, Torino: Einaudi, 2017.
C’è un antico fabliau (il corrispettivo francese della fabula latina) risalente all’epoca medievale, il cui autorə e la cui datazione sono sconosciute, ma che contribuisce in maniera precipua al saggio proposto da Anonimo Trobadore. La vieille qui graissa la patte au chevalier contiene già nel titolo uno gioco di parole il quale, in un certo senso, anticipa tanto l’epilogo del fabliau stesso, quanto quello del saggio qui proposto: graisser significa sia ‘ingrassare’ che ‘corrompere’, ma la vecchia ingenua non rileva questa sfumatura, capendo solo alla fine che per ottenere quello che di diritto le spetta, che per legge dovrebbe essere suo, deve pagare – di nuovo.
L’eco francofono proposto da Anonimo Trobadore si sposa perfettamente con questo breve racconto e ne propone, in un qualche modo, una sua versione tragicamente contemporanea: lə giovane dottorandə o dottoratə si scontra con la realtà di un mondo accademico fintamente democratico e progressista, che invece si barrica dietro antiche pratiche che mirano a conservarne l’ordine e le gerarchie, dove per sopravvivere l’unica via sembra pagare a caro prezzo ogni scelta propria, ogni nota intonata fuori dal coro, dovendo scegliere, in definitiva, se sacrificare le proprie aspirazioni o accettare le regole del gioco (sacrificandosi anche in questo secondo caso).
Il paragone proposto dall’autore, particolarmente calzante e suggestivo, tra dottorandə/dottorə e cavalieri medievali mette al centro della riflessione la venture: il coraggio di incamminarsi lungo un percorso che dovrebbe contribuire non solo alla crescita personale ma anche a quella collettiva, diventa talvolta un’avventura cui bisogna sopravvivere giorno per giorno, in cui il contributo personale si perde nei meandri della forme burocratiche dell’Accademia, dove l’obiettivo non è più l’accrescimento della conoscenza e l’esplorazione di nuovi campi di ricerca, ma diventa un susseguirsi di pratiche preimpostate e vincolanti, spesso accettate dai cavalieri-dottorandə per mero spirito di sopravvivenza.