Poesie di
Stefano Tarquini
Editing di
Andrea Ferraiuolo
Categoria
Narrazioni rotte
Data di pubblicazione
3 Aprile 2024
L’ora delle serpi
campo di carne
Tornare a Bologna degli aquiloni per restarci una due notti innocenti, dove vidi i tuoi timidi lividi, vesti con viscere e pelle di vipere, volan piccioni tra i portici, presbiti a fondo di scorci minimi interrotti e squarci da dove entra sempre lo stesso odore di girasoli, amuchina e terrore, biciclette sfrecciare, colazione pancake uova di caglio né salutare né salutarti in un tempo perfecto, il tempo di una canzone mentre ti vedo nella follia degli occhi presbiteri, orecchie socchiuse ai voti alla vocazione ai gin tonic alla meditazione, basse le spalle all’alba obesa di calvizie, e Firenze campo di carne assalto al cielo tu parli spagnolo, la tua finta intelligenza il tuo ruolo è voglia di fare assecondare, ventilare di pale che spostano polvere pensieri, televisioni spente che dicono più di accese, per le stesse medesime pretese, per le ore specchiate, cornetti ripieni di mosto e di sale, cominciando a bere dalla mattina andare a tutto volume, il peso specifico dei passi schermi disinfettati di cellulari, dei fiori finti e le piante grasse del Pratello, non hanno sete anche se fa caldo, un vento molecolare un percorso ha senso se ti tengo per mano sull’asfalto aspettami, sai già dove andare a mangiare ascoltami, basta che sia dietro occhiali spessi ascoltami ma è già il tramonto miope dei perdenti, assenti affamati e nascosti sotto scalinate sudate al centro Italia che ha i capelli blu, e tornare a respirare di nuovo, ma per scherzo almeno una volta di nuovo, almeno una volta di nuovo soffocare.
l’ora delle siepi
Negli occhi saette due labbra di rogo, scie di mangrovie si toccano appena, al centro del petto una sciara conifera, cicatrici fredde emorragie ferme come vino senza bolle in calici sbeccati sottobicchieri e coralli di tovaglioli muti parole piegate per bene e riposte ma ancora sporche di saliva rossetto risposte.
Tu terra franca cortese e villana fai pure due passi nel lutto, tra Cala delle Murene e le Cannelle un istante stempiato nel furto, tu parte riempita e svuotata tu parte di niente e del tutto, muro di roccia e di onda su onda sei schiava come il tramonto a Poggio della Pagana a Via delle Cote, accumuli di olive cadute stressate pistate di ombre tra i fichi le fronde, un lavandino che perde cinguetta di notte lucertola, notte orbettina che sibili a Lipari come a Orbetello, notte a Punta delle Secche o all’Immacolata al Pratello, notte dagli occhi grigio verdi che diventi giorno, grigia la notte caldana di eterno ritorno.
Al faro di Capel Rosso abbiamo sfidato la scogliere per vedere infrangersi un’onda uguale a un’altra, a Giannutri un sentiero di scale e di muschi un sole mai visto brillare tra la Corsica e Montecristo, poi i vicoli di Giglio Castello dove le radio prendevano solo frequenze francesi pubblicità di tratte di mare coi pescatori alberesi, e nulla più di tanta roccia rossa a svelare svettare di torri dissipare sapori di cirri, separando sudore di corse che corri, poi fermare il tempo per nuove salite, nuove distanti distanze sfiorite.
Per ogni viaggio, e ogni viaggio finisce a ritroso per acque limpide che vedi solo di giorno, e ogni giorno finisce a ritroso per sponde ispide che cammini solo nel sogno, e ogni sogno finisce a ritroso per cerchi liquidi che bagni solo nel mondo, e nel mondo una serpe ti avvolge ogni giorno nel sogno che sogni col veleno di sfondo.
scottature
Come onde e orde composte di minuti secondi e giorni diminuiti e giorni secondi solo a solitudini scomposte e fratture per malleoli alveoli scottature dove nascondere ore strappate ai giorni forse ai quarti di secolo perseveranti e scostanti scrosci di ventri fondi come barili e canili perché ammazzano maiali come ideali come distese di forme e frattali come le ore sfogliate appiccicate ai pomeriggi di primavera questa non è poesia è un retroscena è un amore iniziato la mattina e finito la sera è l’orsa minore è il varietà dove il giorno minuto finisce per caso è una foce un estuario quando stacchi le foto dal muro aprendo un divario mi apri i polmoni non so respirare il pancreas rigetta se stesso senza sfiatare senza struccarsi eccessivamente è il giorno scomposto in mascara e blush bicomponente lo passi sul volto e ricordi te stessa ma è un’ora finita di colpo e neanche ti aspetta sotto l’ombra dei tigli piuttosto distratta signora per sbaglio lei ha perso i suoi figli non come germogli e foglie di spicchi rintocchi ti specchi la luce rimbalza sull’acqua ti brucia negli occhi ti acceca ma è solo un minuto finito due ormai secondi tre ormai giorni sono passati già cinque anni…
tripadvisor
Ponza è una clessidra Ponza dove sale e chicchi discende riso sulla bocca che affonda e ballano in un tempo disparo sdentato e stitico, dove timoni in letargo spastico e daini imbalsamati guardano tassidermisti e vecchi tassisti dalle pareti di ristoranti e spacci qualche stella tripadvisor qualche recensione su monitor telefonata da numero anonimo insolito ma riguardano solo il servizio scadente per dente e tu rispondi ugualmente chi è forse mia madre che mi vuole vedere ti prego dimmi che sei vivo sì sono vivo, non mi spiego perché non c’è neanche un caseificio madre bianca sei una cabala sei latte di bufala come stella che franando s’intrufola e schiaccia pensieri e li scaccia sei Roma anni sessanta canzone stonata settanta poi salite chiese chiuse abbandonate ottanta. Ponza dai capelli rossi sei un cane che non mangia, sei come Palmarola, sei il primo giorno di scuola, di catechismo sai a memoria il vangelo il corano sei il sangue di cristo, una finestra su cappelli di paglia sei una maglia di casette colorate e caviglie fine piante grasse spesse come ventresche e pesci corallo dammi una mano che nuoto nel fango dammi una scusa buona dammi una regola che la infrango, sei come Ventotene sei una carezza gratuita sei il vento che respira e che sviene, pesche noci albicocche sei Zannone di falesia dove scende la notte, dove franano querce e il giorno ti inghiotte, in un boccone solo senza masticare al limite sputare sei parole inventate equazioni calcoli paradossi sei immagini scordate, come scordi di mettere una virgola di fare una pausa di bere una tonica, di inghiottire sbattere ciglia di mandare una foto al gruppo famiglia, basta bere per ora grazie sei lavoro minorile sei un carcere dove finire, Ponza sei un sole spento che abbronza quattro di mattina torni a casa sbronza e con la scarlattina, in un vestito che non è il tuo una casa che non sei tu e sparisci dietro un vicolo di calcinacci, mi prendi per mano adesso sei dodici rintocchi adesso non sono io il tuo problema non sei tu il mio adesso ti chiedo scusa se me ne vado, ti chiedo scusa se adesso ghigliottina una mossa di judo una disciplina, ma è ora di andare, nuoto tra i tulipani le olive con l’arancia gli aperitivi inebriati di pancia i gin tonic ghiacciati gin tonic esaustivi gin tonic senza onde ma col gin mare.
La poesia di Stefano Tarquini è come un turbinio di oggetti, sensazioni, amori e (mal)umori, tempi e luoghi. Ma la forma, in Tarquini, non eccede nella confusione brutalmente complicata e arruffata. La confusione che ci viene data è quella della mente del suo autore, o meglio, si potrebbe dire, della sua “penna”.
Le parole scivolano e si scrivono come da sé, sembrano trasposte nell’immediatezza. Ogni oggetto riporta ad un altro, ogni luogo slitta progressivamente verso un altro, sempre piú piccolo e lontano, ma sempre legato infinitamente e minuziosamente ad un altro ancora. La sperimentazione sintattica impone quindi questo movimento che non fa altro che generare una sintesi fluida e imprevedibile.
E a trasportare le parole, a legarle l’un l’altra, è il loro stesso suono, intimo e tenero; un suono che ad ogni poesia rimbomba, come un leitmotiv di verso in verso, come un’eco che rimbomba reiterato. Per questa loro natura “liquida” – quasi filmica –, i quattro scritti di Tarquini hanno perciò la capacità di riportare ad una lettura dell’immediato, ma soprattutto di trascinare chi legge nella loro personale burrasca.