GRAFONAUTA si presenta come una sperimentazione di rara inconcludenza e preziosa incertezza, un tentativo raffazzonato di costringere una produzione tanto coesa quanto incoerente in una formalizzazione arida, talvolta lasca e talvolta troppo stringente, di un’evoluzione tecnica e temporale in fondo insussistente, donandoci come risultato solo il dubbio di aver visto sempre la cosa sbagliata. Attraverso nove categorie che, già di per sé criptiche e ritrose, respingono ulteriormente ricacciando(si) nel proprio stesso inconscio con i sottotitoli che presentano e dovrebbero rappresentarle, si dipana una temporalità artistica sbilenca e smaccatamente incongrua, in cui un percorso tematico-cronologico di stampo museale perde progressivamente il proprio senso, sempre più tuffandosi nelle e scandagliando le proprie indecisioni, fratture e mancanze. La messa in scena ottenuta, paradossale e inquietante, è quella di produzioni estemporanee che (non paghe di una consapevolezza costante della propria origine materica e scarabocchiata, una consapevolezza feroce, aliena e alienante) non si sottraggono mai soprattutto alla riflessione su sé stesse, non si accontentano mai di farsi indagare senza, frattanto, indagare le reazioni dei loro osservatori: per ricordarci sempre di guardare anche nello spazio che non è stato ripreso, nel vuoto digitale che poteva ospitare ancora una pagina di grafie, per invitarci a navigare questa assenza.
GRAFONAUTA intreccia, dunque, sincronie diacronicizzate (o diacronie sincronizzate) a una proiezione sul piano in cui la perdita di dimensione(i) è il vero aspetto saliente; incrocia pulsioni di violenza grafico-totalizzante a monomaniacalità monocromatiche; invoca una configurazione estetica prorompente dal suo essere e farsi materia, ma che palesi al contempo la propulsione dinamicizzante del tratto da cui i disegni non solo emergono, ma attraverso cui tentano, di volta in volta, di sopprimere, soffocare, liberare, linciare, esorcizzare, estinguere ed espugnare quella stessa fisicità di cui sono componente essenziale, necessaria, e che, però e altrettanto, è essa stessa condizione necessaria ed essenziale per la loro specifica esistenza. Nel dipanarsi dell’evoluzione dell’opera di un’artista che non è artista, di un autore che non si autografa, non possono che rimanere, quindi, queste nove (e nuove) categorie riprese nella loro parzialità tassonomica, un tentativo di fotografie periodizzanti che rappresentano, piuttosto, uno sforzo anti-musealizzante e un prototipo di classificazione volutamente fallace (l’unico che, in un simile contesto, possa non essere realmente inefficace), e infine degli insiemi di opere mai visibili nel loro insieme, che del polimorfismo fanno regola e sregolazioni.
L’horror vacui non solo governa le singole opere che compongono queste punteggiature di estenuante pochezza e vaghezza, ma informa anche la macro-struttura della serie, nel suo ostinarsi a nascondere, più che a mostrare, nel suo perpetuo centellinare una produzione da potersi apprezzare, fatalmente, solo nella sua olisticità. In GRAFONAUTA a imprimersi è l’assenza, in sé e per sé certamente, ma anche (se non soprattutto) nella forma dell’assenza di sé stessa, dell’assenza di un’assenza: per questo le rare ma commuoventi forme umane che fanno capolino (spesso intraviste, altrettanto spesso travisate o tralasciate) in questi disegni paiono così ambivalenti, rapprese in una contiguità che sa in realtà di solitudine e ci esorta a confrontarci con le nostre, di assenze. Scrutare gli interstizi, ponderare gli equilibri tra pienezze aggrovigliate e sideralità tra segni isolazionisti (o tra umanità isolate), abbandonarsi al gioco delle assenze di assenze che non sono mai propriamente delle presenze: è questa la proposta di GRAFONAUTA, un invito a navigare le grafie che non ci sono ancora.