Testi di
Andrea Ferraiuolo
Film di
Andrea Ferraiuolo
Editing di
Simone La Penna
Categoria
Narrazioni rotte
Ombre latenti
Data di pubblicazione
16 Marzo 2023
Racconto dal titolo ancora incerto
Sì perché non l’ho mai pensata prima una cosa del genere come dire che tutto questo giardino qui sotto il mare oltre la collina in realtà non esista le viti gli allori i laghetti le papere i passeri i fenicotteri il cielo l’amore la colazione la cena non ho mai pensato che tutto questo non avesse minimamente senso Quando conobbi lei non l’avrei mai detto né pensato poiché era lei il senso della mia vita Oplà oplà attenzione a diventare anziani! dicevano dio solo sa dio solo sa Finita con il tuo dio bisogna farsi da sé e poi e poi c’è qualcos’altro che vorrei dire sì qualcosa che ora non mi viene Massì mi verrà mi verrà ho vissuto finora ricordando nemmeno la metà delle cose che avrei dovuto fare o dire Adesso è ottobre e ho ragione nel dire che sono già le quattordici Forse ti sarai già appisolata nel tuo solito farlo di quest’ora abitudine che mai comprenderò Basta parlar di basta con le inutili chiacchiere pomeridiane ora me ne voglio stare qui sconsolato come un vecchio dinanzi alla sua vita Dov’è il mio vino dov’è Dov’è il mio vino
E po po poi basta basta! Chi fatica ci riprovi ci riprovi Il mio naso Il mio naso da quando è così arcuato? da quando Da quando la mia bocca è così irregolare così Il suo nome da ragazza Il suo nome da ragazza era Cento cento volte l’amai e l’amo ancora Mai s’era vista al mondo una donna più schietta di lei sempre con quegli occhi cadenti da zingara e ridenti da infante con una costante parola scherzosa sulle labbra che non erano irregolari come le mie erano perfettamente morbide e rosse non marroni come le mie
Ma chi era? Cento era seduta vicino alle sue compagne perduta nei suoi pensieri I capelli pece che le formavano una ferma corona posatale fin sul collo svolazzavano imbestialiti dal vento d’ottobre lo stesso che leggeva fra le righe di Majakovskij lo stesso che poi mi disse esserle stato utile per andar oltre i sazi orizzonti e la soffocante ottusità intellettuale che a dir di molti mi rappresenterebbe e forse rappresenterebbe il non-legame che v’è sempre stato fra me e lei Le sue mani orientali si annodavano come questo secolo fra timide carezze e lampi di guerra era sua abitudine dilettarsi nell’arte compulsiva dell’onicofagia Ma il loro pallore sempre vivo come quello della luna custodiva la propria nobile bellezza e succo di limone l’aveva detto una volta Anselmo l’aveva detto una volta Anselmo Anche lui era un giovane piuttosto spiritoso e d’una femminilità particolarmente accentuata anche laddove non si sarebbe mai detto d’un uomo cosa che comunque mi ha sempre turbato debbo dire I due parevano incredibilmente inseparabili ma dovevano esser fratello e sorella o cugino e cugina non potevano essere innamorati non potevano
E comunque fu in ottobre che la vidi fu in ottobre poi mi invitarono a un balletto che di quello non m’importava no mi bastava soltanto avere una poltrona accanto alla sua ricordi? Che poi m’addormentai ma soltanto per pochi minuti tale era soporifero il profumo fresco del suo corpo orientaleggiante che era un tempio di quelli sottili e irriverenti Ne visitai uno la prima volta fu nell’Honshū e vi rividi il suo volto come anche i capelli fra le tegole dei tetti maliziosamente sorridenti e d’una fiera e divina imperialità come il suo collo duttile e porporino era i nove anelli Kurin e il suo interno così minuziosamente ornato i più intimi e inaccessibili suoi nascondimenti Lei aveva madre giapponese e padre italiano lei un’insegnante di lingue lui un antropologo e per di più famoso sicché mi portò egli stesso a visitare le meraviglie del paese che mai rividi oltre quella volta Sig. Cento? È lei? La ringrazio di cuore sua figlia è la creatura più bella che esista nella mia vita e lei l’uomo più gentile che abbia mai conosciuto Per me lei è un padre ed io certamente posso dirlo con certezza in quanto non ne ho mai avuto uno La loro casa solitaria accanto al cimitero è disabitata l’ho rivista poco fa incamminandomi per il centro Nessuna anima bella come la loro vivrà più lì I ragni tessono le loro tele in solitudine senza alcuno che li scacci I ratti vi si nascondono furbamente e ne fanno la loro tana I morti limitrofi vi fanno le vacanze stufi dei continui e tristi compianti religiosi Quella casa è infestata dall’emozione è
Io la conoscevo bene io la conoscevo maledettamente bene Attraversammo insieme il palco del teatro salutammo i due bambini del balletto l’uno si chiamava Matteo l’altra Antonietta di origini ottomane anzi siracusane anzi non lo so Giungemmo al mattatoio prendendo il tram perse il biglietto prima che salissero i controllori che poi manco glielo chiesero ci ficcammo dietro un angolo buio laddove il lampione era spento e io pensai mi volesse baciare ma non fui in grado e non seppi mai cosa volle Come un miope mi avvicinavo al suo volto Ma lei con destrezza ed eleganza si sedeva sulle panchine Ah quanto amava sedersi sulle panchine Erano mesi che ci conoscevamo io mi sentivo ogni giorno un poeta e ogni giorno un cialtrone Scrivevo un verso come “Sì! Ora è deciso, ti prenderò e ti porterò via nell’incendio dell’amore” poi non avevo idea di come proseguire o se per caso mi veniva in mente qualcosa me ne dimenticavo non mi capitava mai di ricordarmene Mediocre mi chiedevo a chi sarebbero mai serviti quei versi quei versi melati che avrebbero dovuto sedurre alla poesia chi invece preferisce leggere libri di macchine pieni di fotografie Decidevo di pensare ad altro Quando non mi era facile brontolavo vecchie storie come di quella volta che mio nonno mi fece dipingere da solo per la prima volta senza alcun aiuto nell’impostare il bozzetto Fece scegliere a me quali colori usare su quei gerani appassiti e rimasi immobile per due ore come un imbecille prima di spennellare di viola e di turchino e di decidere che avrei fatto l’artista da grande Ah sì gli artisti gente divertente su di loro sono ben note tante storie come di un mostro dai capelli argento che parla di cosmi a una giovane studentessa pustolosa tutto bramoso di languore sessuale Che c’è di male nell’esser precipitosi bambina che c’è di male Durante questo viaggio nella memoria mi prodigavo invano nel masticare nuovamente qualche verso ma pace avrei trovato soddisfazione in qualcos’altro Avrei detto a Cento di quella lirica che m’aveva rovinato e che avevo recitato a memoria tutta d’un fiato come una performance alla quale lei avrebbe dovuto assistere ella m’avrebbe detto “Che peccato la prossima volta chiamami” e io mi sarei pensato uno scaltro pervertito un laido dalla lingua lesta ma mai un artista Un artista non si sarebbe dimenticato la propria lirica non si sarebbe non
Quasi parvenza incorporea le ali di garza iridate di Antonietta l’ottomana si levavano tra fasci di luce e nebbie violacee I suoi occhi erano riflessi sbiaditi quest’immagine ritornava spesso nei miei sogni Poi finivo per guardare lei che col calore del suo corpo ammantato Finivo per fissarla “Guardami” le sorridevo e lei mi rispondeva caustica “Piangi sempre…!” Ebbene lo ammetto! t’ho guardata tutta la sera non ho saputo resistere T’ho guardata tutta la sera non farmene una colpa, non… È così è… è così t’ho guardata tutta la sera t’ho T’ho immaginata nuda in una deliziosa e leggera vestaglia ti ho Ti ho desiderata ebbene! E allora? Poi baciavo ripetutamente la cornice del loggione Stavo per lanciarmi per buttarmi di sotto certamente l’avrei fatto ma ho intravisto qualcuno nella platea rivolgersi allarmato verso di me Così dolcemente lei mi riponeva come un’urna coi piedi sulla moquette
Nella mia mente era la donna più intelligente che conoscevo Di buona famiglia sarebbe stata un’ottima madre un’ottima moglie Erano poche le ragazze che come lei abbracciavano un uomo con una tale dolcezza che In verità capii ch’era stupida e infantile pareva avesse dieci o quindici anni meno di me ma di questo non mi preoccupavo anzi a tratti godevo nello spiegarle rozzamente certe cose della vita e della società che a lei davano noia e certe altre volte invidiavo quel suo modo infantile di comportarsi con non curanza Qualcuno la chiamava cretina e puttana anche per quel suo ingenuo attaccamento alla figura maschile e lei lei era una donna piena di femminilità non come altre ragazze volubili e niente affatto femminili che avevo conosciuto come certe altre ragazze volubili Ma un po’ me ne vergognavo insomma mi vergognavo di girare con Cento per i nostri soliti quartieri per cui preferivo uscire la sera quando vecchie e bambini s’accasavano e magari andare al cinema o in teatri lontani dove il buio e la finzione della messa in scena ci oscuravano del tutto nella fantasia dell’oblio Era lì che fantasticavo maggiormente Maggiormente fantasticavo di noi e non era costretta a vedere quel mio sguardo triste che era il più triste che aveva mai visto diceva
Ah!
Fu divertente poi scoprire che l’amico Anselmo era anche lui artista Era elegante sobrio e per di più poeta anche se piccola aveva già la sua cerchia di seguaci per una forza che in qualche modo afferrava Diceva delle tempeste e dei temporali della gelida vita e delle perdite gravi Il peggio accadde quando scoprii ch’egli me l’aveva fatta una sera andando con Cento e cioè baciandosi con lei sotto i fuochi d’artificio Lo sapevo io che era capace di una simile carognata dopo che in quel poco che avevamo parlato gli avevo confessato di tenerci a lei non di esser propriamente innamorato ma di tenerci E lui cosa fa? me la ruba così sotto il naso ma io l’ammazzo pensai Poi parlandone con Cento “ma cosa avete combinato?” “chi, noi? niente” e cambiava discorso “questi fuochi d’artificio mi piacciono davvero, ma non nel senso che mi piacciono esteticamente, anche quello sì ma è più un piacere che non saprei come spiegare; cioè mi piacciono perché sono brevi, sono come delle apparizioni, si creano e si distruggono da soli” e io beh effettivamente ci riflettevo su e cazzo aveva ragione Con la sua ingenua ignoranza ancora una volta me l’aveva fatta Ragionavo sull’arte la mia arte e su come potesse nascersi e distruggersi nel medesimo istante anzi con una distanza di un istante o due ma dove erano quel paio di istanti Ma comunque quel figlio di puttana lo odiai da quel momento quell’Anselmo che avrei preferito morisse scoppiato assieme ai fuochi d’artificio In un istante o due (meglio uno) Ottenni però la soddisfazione di passare il resto della notte con lei sulla spiaggia e quindi vederle gran parte del corpo privato d’ogni vestiario inutile e le spalle morbide che toccavo con gli occhi le lunghe braccia pallide e le gambe affusolate e i piedi perfetti spesso coperti da calze sgualcite pensavo fosse un enorme sacrilegio Ah diavoli sono coloro che sanno approfittare non come me che Ora come ora è un gran caldo non so come questi possano Le suore con le facce bianche e il loro rosario vanno avanti e indietro mugolando come cani E poi quella notte l’unica cosa che feci fu posarle la mano sulla coscia nel silenzio Mi sa che s’era accorta che io… Uuuuhhh aaaahhh uuuuhhh aaaahhh Saaaanta Mariiaa Saaaanta Maddaleeena Saaaanta Mariiaa Saaaanta Maddaleeena
Se ne stava così, come suol dirsi, magnificamente malato, sul balcone che s’affacciava sul boschetto imbrunito dall’ottobre più severo degli ultimi anni e sul pascolo danzante e scherzoso di certi gitanti provenienti dalle piccole città dei dintorni. Da quella casa aveva visto suore e mucche pascolare ogni domenica, poiché poco più in là vi era una santa chiesa, attigua alla serra moresca dove più frequentemente sostava. Era quindi costretto all’ascolto di mugolii insistenti, una mistura di lamenti rituali e piagnistei infantili e pensava spesso se quei poveri infanti avessero o meno il diritto dinanzi al Signore di restare nelle loro stramaledette case, che lui voleva in santissima pace tentare di scrivere qualche poemetto o, perché no, qualche incipit di racconto. Di romanzi non ne voleva sapere per ora, erano assai difficili e lui si ammaliava con le storie brevi, anche se non ne leggeva mai di altri. C’era poi da tenere in conto la caratterizzazione dei personaggi, e lui, proprio come i peggiori (tale era la considerazione che aveva di sé), non ne era capace: la mediocrità ad un artista non gli permette di raggiungere il poetico ma al massimo il teorico. Per cui anche nei racconti provava a scrivere varie personalità, superficialmente teoriche, che poi univa in una, come se avesse costruito il simulacro di una personalità multipla. Ma egli si sentiva così d’altronde. Non propriamente un affetto da personalità multipla, bensì più un coglione con diversi volti da coglione. Si sentiva il re dei coglioni.
Passavano sotto al suo balcone e lo salutavano, gli sembrava, quasi lo lodassero per quel suo aspetto dignitoso, papale. Gli pareva così di essere lui il prete dal quale loro si stavano recando. E l’amavano. Lui pure le amava, le amava per sentirsi amato, anzi riamato. Era molto infatti che non si sentiva amato. Sapeva che quell’amore cristiano lo illudeva malinconicamente, eppure ci si crogiolava, nonostante odiasse la religiosità. Ma lui e il cristianesimo avevano una grande cosa in comune: questo immenso disprezzo per la vita, questa voglia di un aldilà che era maggiore della voglia dell’aldiquà. Egli non sopportava la buona fede, l’ossequiosità. Erano patologie. Nondimeno era conscio che una profonda endemia era presente anche nel suo spirito. Ma non solo nel suo. Era un’endemia di massa, una pandemia, presente in ognuno dalla nascita. Questo cominciò a dire alle tre sorelle che s’erano avvicinate fin sotto il balcone. Ma prego salite, salite, disse. Salite sorelle. Posso offrirvi qualcosa? Un caffè bastò. Il malato sapeva che esse pensavano bene di catturarlo in qualche modo, di spacciarlo magari come pecora smarrita o, peggio ancora, come pecora nera smarrita. Tutt’al più si sarebbe svincolato con la scusa della grave malattia che lo costringeva, da un anno a quella parte, a restare chiuso in casa.
Sull’endemia le suore si trovarono d’accordo col malato, tanto che si complimentarono per la metafora scelta. Ma voi capite soltanto quello che volete capire. Vedete soltanto ciò che volete – e quindi dovete – vedere. Apprezzate soltanto ciò che v’è costretto d’apprezzare. Tutti gli umani nascono malati. Molti se ne accorgono, molti altri fingono di non accorgersene. Molti altri ancora se ne accorgono e per trovar rimedio accorrono tempestivamente a delle soluzioni. Io tante volte ho ricercato la soluzione più grandiosa, più barocca, più teatrale; voi avete trovato quella della religiosità. Ma la religiosità è un’endemia aggiunta; voi, sorelle, avete aggiunto un’endemia all’endemia. Come due occhi che fissano due occhi. Se dovete vedere voi stesse prendetevi uno specchio. Prego, tenete. Io di gran lunga preferirei non saperne nulla. Non saper leggere né scrivere, ma nemmeno prostrarmi ai piedi di un cretino. Certo questo non potrei capirlo in assenza di cultura e allora se proprio devo saper leggere e scrivere, devo aver il coraggio di rifiutare i convenevoli del quotidiano, l’umiltà e la devozione. Devo avere il coraggio di rifiutare questa endemica educazione.
Se ne andarono così, prendendolo per pazzo, ma portandosi dietro lo specchio, non si sa mai. Lui rise come un deficiente, forse per i suoi versi ottenebrati, pensando a quelli di gran lunga più apprezzati del collega Anselmo, pensando a lei. Rideva, rideva, ma non era quello che voleva. La pioggia, che improvvisamente era scoppiata, frammentava i suoi pensieri.
Molte cose mi hai detto, Cento, non c’era una parola di vero, Cento, mi hai ingannato, Cento, ti ho sempre odiata, Cento, ti ho odiata tanto, non hai cuore, Cento, ti ho odiata tanto. Questo pensava e delle volte questo scriveva. Poi certi pomeriggi lo scontento era tale che decideva di volersi buttare, come in quel sogno che aveva fatto, ma niente. A quanto pare non gli riusciva di morire.
Attraversò quella che a parer suo era la sua stanza e si fece un bicchiere di vino. Adesso non aveva più uno specchio in camera, perciò decise che se ne sarebbe procurato uno alla discarica a meno di un chilometro da lì. Avrebbe dovuto sospendere quella sua endemica messinscena di rimanere assolutamente in casa, ma poco importava, l’aveva già fatto altre volte. Soltanto una cosa: se debbo proprio uscire, tanto vale prendermi su la boccia, pensò, e se la portò sotto il braccio come fosse il figlioccio suo.
D’uno specchio D’uno specchio ho bisogno D’uno specchio Puoi parlare finché vuoi ma se non hai uno specchio Maledetto me che ho lasciato che quelle vecchiacce si prendessero il mio specchio Io scherzavo e loro
Seguì un silenzio infinito come quello che c’è fra questi campi di stoppie la volta in cui mi venne in mente di chiedere a Cento se fosse innamorata di me come io lo ero di lei M’incantai a vedere i merli rovistare nel terreno Poi dissi qualcosa di stupido e in quel momento lei mi sembrò molto meno sciocca di me Eppure la odiai
A cosa pensò lei?
Il rapporto puramente bambinesco e infantile a cui avevamo dato inizio le aveva fatto pensare a un rapporto fraterno e cioè dove io ero il fratello e lei la sorella E questo mi disse Al fatto che di lì a poco sarebbe partita per il Giappone poiché suo padre era morto stroncato da un infarto per una salita eccessiva fra i monti E questo mi disse Al fatto che voleva che andassi con lei E questo mi disse
Io mi sentii mitragliare da una risata Il suo volto impallidì come la luna ad agosto Se proprio doveva andarsene tanto valeva finirla sul ridere Ella sorrideva stupita interrogativa ma quasi più imbarazzata
Colse uno specchio un po’ antico, l’unico trovato nel groviglio tecnologico. Forse è un po’ vecchio. Ci si specchiò più volte. Amaramente. Ma in fondo non è male. Non era male.
Ritornando a casa il tempo s’era sistemato e ripensò a lei. Lei era un chiodo, un martello, un trapano. Come avrebbe potuto vederla ogni giorno con la sofferenza che partoriva? Difatti, dopo un lungo periodo in cui continuarono a ricercarsi, decise che non l’avrebbe più rivista. Decise di ammalarsi. E s’ammalò. D’una malattia gravissima per di più. Non esistevano cure e quando ella tentò di cercarlo non v’era proprio modo di fargli cambiare idea. Via puttanella! gridava (ma tra sé, non lo pensava realmente). La porta è chiusa non vedi? La porta è chiusa. Non v’è modo ch’io cambi idea, non vi è alcuna intenzione da parte mia di tornare indietro. La mia mediocrità mi ha giocato questo brutto scherzo. Stronzo io che ho pensato che… la mia mediocrità. E così si calmava. Nel ripetere le stesse frasi s’addormentava con la bocca aperta, come un cretino.
Si portò alla parete. Aveva scagliato le due valigie contro lo specchio. Si doveva passare di nuovo alla discarica. Quelle valigie erano le stesse che un anno prima aveva preparato in vista della partenza per il Giappone. Ma era malato. Era maledettamente malato. Dunque non poteva. Quelle valigie erano rimaste lì, per un anno.
Si rivedeva nel vetro in frantumi. Erano sempre stati così appuntiti i suoi zigomi? Erano sempre stati così pesti i suoi occhi? La sua bocca era sempre stata così… sgretolata? Così irregolare. Anche il volto di Cento era assai asimmetrico e irregolare, ma decise che era ugualmente poetico.
la mediocrità di un artista non gli permette di raggiungere il poetico ma al massimo il teorico.
Ma il poetico non è soltanto l’irregolarità e il dissonante è più il movimento che porta ad essi Proprio oggi che è ottobre e le foglie cadono sono eccezionalmente in vena per bere del vino Prendi prendi del vino Sono eccezionalmente in vena di bere dell’altro vino!
Prese così un calice, questa volta, per le grandi occasioni, e si versò del rosso.
Affastellare vorticoso di immagini e suoni. Ebbrezza. Gli si ruppe in mano, il calice; gli si versò per la bocca, il mento e lo stomaco, il vino. E mentre gorgogliava ripeteva: ebbrezza, ebbrezza. Ripeteva silenziosamente mentre fuori si levava il vento. Pensò fosse, quella, una giornata meteorologicamente burrascosa, polemica. Pensò fosse una poesia. Ma non gli venne di scrivere: aveva perso quella voglia, quel desiderio libidinoso.
Nel chinarsi le sfiorai i capelli Lei si scopriva la gola per il caldo e poi Come danzanti ci sfioravamo senza farci caso guardando le terrazze moresche continuavo a sfiorarle la gola poi il seno poi il ventre poi il culo poi i piedi Toccando terra ci levavamo “Quel che hai da dirmi dimmelo” “Zitta!” “Beh allora ti dirò io qualcosa” “Di là, andiamo di là” dissi e volando ci spostammo dove faceva meno caldo di certo non nel balcone sotto al sole cocente che era quello campestre il più temibile Lei goffamente mi pestò un piede “Ahi, porco d…” mi censurò scusandosi e m’adagiò sul letto come fossi il suo figliolo poi mi rimboccò le coperte ma il caldo persisteva e ancora le bestemmiai e non ci fu censura alcuna a placarmi “Dai sta buono, stai buono” “Stai buono un corno!” brontolai “Guarda quant’è bello da qui” e indicava le distese verdeggianti dei campi gli alberi in fiore e il rumoreggiare delicato degli uccellini da una parte all’altra Non c’era niente da fare ancora una volta mi aveva umiliato Un imbecille Mi aveva umiliato nuovamente “Vieni con me in Giappone” mi disse poi “Ti ci porto io” era così materno il suo sguardo E l’abbracciai come mai avevo fatto Si presentava come un albero maturo di frutti era nuda agli occhi miei e più la pensavo voluttuosamente più mi veniva da stringerla sino a strangolarla “Ahi, mi fai male!” Ancora una risata Mi calmai Mi recai allo specchio per parlarle non riuscivo a guardarla negli occhi “Vattene, vattene!” Mi sentivo incredibilmente malato D’una malattia mediocre “Ma non fa niente” “Fa!” “Pensaci. Fa le tue valigie” e le feci le feci le valigie Le valigie le feci ma Il raffreddore era eccessivo la febbre saliva rabbiosa non v’era modo di fermare tutto ciò per cui “Va pure senza di me, ti raggiungerò, ti raggiungerò senz’altro. Tu intanto va. Va” E andò. Andò per sempre.
Come quando da bambino non avevo il coraggio di cominciare un dipinto senza che mio nonno mi aiutasse nei bozzetti preparatori. Cosa c’era in quella mente instabile e insicura? Dei fiori. Del rododendro. V’era solo da dipingere un fiore, forse due. Mancava il coraggio. E anche un po’ di sveltezza; che quel bambino indubbiamente cercando riparo dal vento finì per scoprire rozzamente un capezzolo dalla veste E mi presi un bello schiaffo
E ora io non sono più io ma qualcun altro tu pensi d’avermi detto addio ma in verità sono io che mi sono disfatto di te e con te della mia mediocrità adesso avrò modo di girare l’Europa e forse se avrò tempo verrò in Giappone e forse se avrò tempo passerò a salutarti anche perché un po’ già mi manchi com’eri bella tutta imbellettata di fiori che ti facevano da corona di spine tu eri Cristo e io la Madonna ma adesso basta ci siam detti addio ci siam detti addio dunque basta ci calpestavamo a vicenda no? nulla ha senso la vita non ha senso e lei e lei che altro poteva aggiungere eh ma che vuoi che ti dica oh in un anno ci saremo dimenticati l’un dell’altra io no dici? Dammi ancora qualche mese e vedrai che di tutte le persone che passeggiano per di qui sotto il balcone ce ne sarà qualcuna prima o poi… una persona che mi porti in giro per l’Europa e perché no anche fino in Giappone una persona che m’insegni le mestieranze che nella vita come suol dirsi ti fanno uomo una persona che non sia una indecente menzogna lo so che se ci avessi pensato prima oh! ma in un anno maestri muratori della serra moresca carpentieri ingegneri civili falegnami di grande nomea corniciai per le sacre rappresentazioni della santa chiesa tecnici del suono meccanici tassisti autisti di bus autisti di tram autisti di ambulanze autisti di tir autisti di checcazzo ne so io mercanti insolenti mercanti cinici mercanti insistenti mercanti capaci fiorai romantici innamorati vecchi innamorati giovani innamorati bambini innamorati morti santissimissime madri suor Nicoletta suor Gelsomina suor Nadia suor Fatima suor Maria Giovanna suor Margherita suor Anna suor Elisabetta suor Maria la reverenda Madre Costanza la reverenda Madre Fabiola Monsignor Bizantino Fabrizio Ieti padre Ludovico padre Andrea padre Lorenzo padre Antonio padre Ferdinando padre Carmelo padre Michele padre Costanzo il molto reverendo Elia il reverendo Ned e il reverendo Thompson delle volte in una gran sfilata cerimoniosa gli addetti a reggere i feretri Sig.ra Abeti Sig.ra Mancini Sig. Mencarelli Sig.ra Faggi Sig. Albertelli Sig. Luciani Sig. Palmieri Sig. Ferrante Sig.na Mariani Sig. Fabrizi Sig. Cirillo Sig. Lo Cascio Sig. Costantini Sig.ra Mattei Sig. Mattei il piccolo Pippo i morti il Sig. avv. Mencarelli la Sig.ra Palmieri l’illustrissimo Reverendo Elia Cosimi e infine il povero vecchio Sig. Mattei
Ora, mentre raccoglieva pezzi dello specchio, dal campo sottostante la sua abitazione apparve un gruppo di festaioli. Anzi no, dei religiosi forse. Egli aveva sempre detto che odiava i religiosi. Eppure guardò da lontano, i capelli gli si ravvivarono sventagliandosi all’aria e il viso s’arrossì come quello di una bambina. Gli sembrò che lo additassero. Ma ancor più arrossito faceva cenno con la mano che no, andate pure senza di me, io ho da fare, ho da raccogliere questi vetri. Ne pestò uno. “Magari!” s’infuriò fatalmente. In un baleno, sorpreso di se stesso, s’infilò i primi pantaloni che aveva a portata di mano, dopodiché si precipitò sul balcone e si gettò di petto, perché così “faceva prima”, non c’era tempo per le scale e per il portone, per chiudere a chiave la casa e le finestre: quel gruppo di allegri gitanti sarebbe potuto sparire da un momento all’altro. Adesso si pentiva di avere amareggiato Cento, si chiedeva in quale mare fosse e a chi – forse – stesse parlando di lui a quell’ora. Ma lei era come una bambina e di certo si era dimentica di quel piccolo ricordo, e lui aveva smesso di pensare al senso delle cose.
Intanto s’accorse d’essersi imbattuto in una sorta di processione. Questi andavano in una direzione a loro ben chiara e non v’era modo di deviarla: sarebbero arrivati lì nel giro di uno, due giorni.
A infestare le immagini testuali e i testi visivi di questo racconto per sempre incompiuto è un senso di impotenza e inadeguatezza: sono inadeguate le sole immagini, che incorniciano la vicenda senza poterla frenare; sono inadeguate le parole di un flusso di coscienza di un malato tanto immaginario da non volersi prendere la briga neanche di scegliersi una malattia da cui essere affetto, che non sia la sua stessa endemica mediocrità; sono inadeguate le parole materne di Cento; sono inadeguate le poesie strappate del protagonista; sono inadeguate le forme di devozione sempre meno convinte e convincenti.
È inadeguata, soprattutto, la memoria: la confusione tra piani diegetici e mediali, tra narratori e spazi narrati, non lascia alcuno scampo e prospetta un eterno ritorno al passato, anche dopo la fuga necessaria e agognata. Mentre scorrono i titoli di coda, non possiamo che confrontarci con la consapevolezza di non sapere se abbiamo visto un racconto o letto un film, e con il dubbio su cosa significhi la sua incompiutezza, se apra uno spiraglio di speranza o se sia la definitiva condanna alla gabbia delle proprie ossessioni.