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Te­sti di
Ja­co­po Ab­bal­le

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Ga­hel Ze­si

Edi­ting di
Si­mo­ne La Pen­na

Ca­te­go­ria
Nar­ra­zio­ni rot­te

Da­ta di pub­bli­ca­zio­ne
21 Mar­zo 2023

La casa oscena

Il can­de­la­bro sen­za can­de­le, i ca­li­ci sen­za vi­no, i piat­ti sen­za car­ne. Mi­che­le e Gia­da, fra­tel­lo e so­rel­la, se­du­ti uno da­van­ti all’altra. Ma­dre e Pa­dre, uno per ogni ca­po del ta­vo­lo, non si era­no scam­bia­ti uno sguar­do dall’inizio del pran­zo. So­lo il lun­go cen­tro­ta­vo­la bian­co, in piz­zo, li uni­va.

Il gran­de ta­vo­lo in mo­ga­no as­sor­bi­va i rag­gi del so­le. Una de­li­ca­ta sin­fo­nia di po­sa­te ac­com­pa­gna­va il mo­men­to. Tut­ta la com­po­stez­za di un pran­zo del mer­co­le­dì.

Poi una scos­sa. In­te­sti­na. Tra le vi­sce­re del Pa­dre. Lo sfin­te­re col­pi­to da spa­smi vio­len­ti. L’ano boc­cheg­gian­te, co­me in cer­ca di os­si­ge­no. Le ma­ni del Pa­dre a strin­ge­re le bu­del­la, la fron­te ma­di­da di su­do­re, la ca­mi­cia ba­gna­ta sot­to le ascel­le. La nuo­va die­ta ve­ge­ta­ria­na sta­va per da­re i suoi frut­ti. Frut­ti mar­ci e tos­si­ci. I fi­gli si li­mi­ta­ro­no a lan­cia­re uno sguar­do cu­rio­so ver­so il Pa­dre. Non ti sen­ti be­ne, ca­ro? chie­se la Ma­dre, dall’altro ca­po del ta­vo­lo. La ma­no tre­mo­lan­te del Pa­dre af­fer­rò il cen­tro­ta­vo­la, tra­sci­nan­do­si a ter­ra piat­ti, ca­li­ci, e pu­re il can­de­la­bro, che esplo­se di ru­mo­re. Ca­ro, che suc­ce­de?! Mi­che­le e Gia­da po­sa­ro­no i cuc­chiai col­mi di fa­gio­li. Dal­la ca­mi­cia del Pa­dre sal­ta­ro­no uno, due, tre bot­to­ni. L’uomo era a ter­ra, cir­con­da­to da coc­ci, ve­tri e fa­gio­li, con la schiu­ma al­la boc­ca e il cu­lo stret­to in una mor­sa. Gli tre­ma­va­no le gam­be, le brac­cia. Cer­ca­va di gat­to­na­re, ma non sem­bra­va un bam­bi­no. Era so­lo pa­te­ti­co, col­mo di do­lo­re e mer­da. Ovun­que met­te­va le ma­ni si fe­ri­va, e quan­do si fe­ri­va cer­ca­va di smor­za­re un ur­lo, sba­van­do da tut­te le par­ti. Si tra­sci­nò fuo­ri dal­la sa­la, con i pal­mi im­pa­sta­ti di fa­gio­li, san­gue e ve­tri. La mo­glie e i due fi­gli lo se­gui­va­no len­ti, co­me in un’oscena pro­ces­sio­ne. Per­se una scar­pa, che la Ma­dre rac­col­se sen­za mo­ti­vo. Lei ur­la­va di­spe­ra­ta, lui si mor­de­va il lab­bro e cer­ca­va di re­si­ste­re. Quan­do fi­nal­men­te riu­scì a di­re qual­co­sa, fu so­lo An­da­te via! Pre­sto! Ma la fa­mi­glia gli re­stò ac­can­to. Mi­che­le e Gia­da era­no gli uni­ci a go­der­si lo spet­ta­co­lo. In fon­do, quel pan­zo­ne del Pa­dre non era mai ap­par­so co­sì ri­di­co­lo. Non si era mai ab­bas­sa­to ai lo­ro pie­di. Era buf­fo ve­der­lo co­sì. Di­spe­ra­to. Il Pa­dre spa­lan­cò tut­te le di­ta del­la ma­no de­stra ver­so l’ingresso del ba­gno. Tre­ma­va sem­pre di più, or­mai com­ple­ta­men­te ste­so sul pa­vi­men­to, i ca­pel­li in­col­la­ti sul­la fron­te, la schie­na ba­gna­ta. Poi la ma­no si af­flo­sciò anch’essa a ter­ra e le lab­bra di lui riu­sci­ro­no a di­re An­da­te… ma nes­su­no lo sen­tì. Per­ché la Ma­dre ur­la­va iste­ri­ca. Per­ché il Pa­dre era mor­to. Con gli oc­chi spa­lan­ca­ti e lo sguar­do eter­no sul ces­so.

Mi­che­le si tap­pò le orec­chie, Gia­da re­stò im­mo­bi­le. E il cor­po del Pa­dre ri­pre­se a muo­ver­si, tre­man­te. Una sca­ri­ca di mer­da li­qui­da di­vam­pò nei suoi pan­ta­lo­ni ele­gan­ti. Una sco­reg­gia fra­go­ro­sa e in­fi­ni­ta riem­pì l’aria, una chiaz­za mar­ro­ne si fe­ce stra­da al­la ba­se del cor­po. Il fe­to­re era co­sì in­ten­so che sem­bra­va di por­te­lo mor­de­re. Nel­la Ma­dre, poi, esplo­se il bi­so­gno di co­prir­si gli oc­chi. Ma non ser­vì a nien­te, per­ché quel­la era sì una mor­te che fe­ri­va gli oc­chi, ma che con la stes­sa for­za si in­si­nua­va nel­le na­ri­ci, ri­suo­na­va nel­le orec­chie, graf­fia­va la go­la. Da un mo­men­to all’altro, an­che le ma­ni di lei per­ce­pi­ro­no la mor­te, e lan­cia­ro­no via la scar­pa lu­ci­da che ave­va­no rac­col­to. Gia­da e Mi­che­le guar­da­va­no a ter­ra, ver­so la scar­pa. I lo­ro sguar­di si in­cro­cia­ro­no.

 

***

 

Il fu­ne­ra­le si ten­ne due gior­ni do­po, a ba­ra chiu­sa. La Ma­dre, in pri­ma fi­la, guar­da­va ver­so la cas­sa con sguar­do im­mo­bi­le. Gli oc­chi gri­gi e stan­chi per le trop­pe la­cri­me, le oc­chia­ie scu­re e le ru­ghe più se­gna­te che mai. Per un at­ti­mo la col­pi­ro­no le ve­na­tu­re del le­gno. È as­sur­do, pen­sò, sem­bra pro­prio il ta­vo­lo che ab­bia­mo in sa­la da pran­zo.

Mi­che­le e Gia­da in­dos­sa­va­no gran­di oc­chia­li scu­ri. Si ten­ne­ro per ma­no per tut­ta la du­ra­ta del­la ce­ri­mo­nia.

 

***

 

I gior­ni suc­ces­si­vi al fu­ne­ra­le fu­ro­no stra­ni. La Ma­dre pas­sa­va in­te­re gior­na­te a pu­li­re la gran­de vil­la. Si era sba­raz­za­ta del­la do­me­sti­ca so­lo per im­pe­gna­re il suo tem­po in qual­che mo­do. Si trat­ta­va, cer­to, di una ma­nie­ra per oc­cu­pa­re la men­te. Per can­cel­la­re il ri­cor­do di un ma­ri­to che esplo­de tra i suoi ri­fiu­ti, per li­be­ra­re la ca­sa dal­la ver­go­gna. Gior­no do­po gior­no, pu­len­do ogni su­per­fi­cie, sem­pre. In­va­no.

Gia­da e Mi­che­le, dal can­to lo­ro, non re­sta­ro­no cer­to in­dif­fe­ren­ti al­la mor­te del Pa­dre. Gia­da, che all’epoca ave­va so­lo se­di­ci an­ni, ven­ne col­ta da una li­bi­do im­prov­vi­sa e a lei sco­no­sciu­ta. Or­mai si ma­stur­ba­va an­che due, tre, quat­tro vol­te al gior­no. Il suo let­to a bal­dac­chi­no era il po­sto pre­di­let­to per con­su­ma­re que­sto amo­re au­to-ri­fe­ri­to. Lì, con le gam­be spa­lan­ca­te e la vul­va in di­re­zio­ne del­la por­ta, po­te­va pas­sa­re an­che un’ora ad ac­ca­rez­zar­si, nel­la spe­ran­za che qual­cu­no en­tras­se nel­la stan­za e la tro­vas­se co­sì. Nel vi­zio. Gia­da, pe­rò, non sde­gna­va luo­ghi più sco­mo­di e spor­chi, co­me il ces­so. Tal­vol­ta, men­tre ca­ga­va, era col­ta dall’impeto di ma­stur­bar­si. Non lo fa­ce­va sem­pre, ma so­lo quan­do il suo fra­tel­lo­ne era ap­pe­na pas­sa­to di lì. La ta­vo­let­ta con­ser­va­va co­sì il ca­lo­re del cu­lo fra­ter­no. Al­tre vol­te, Gia­da sen­ti­va Mi­che­le en­tra­re e usci­re dal ba­gno in me­no di due mi­nu­ti. Al­lo­ra cor­re­va in ba­gno per ba­gnar­si i pie­di nu­di sul­le pia­strel­le schiz­za­te del suo pi­scio. Que­sta era in as­so­lu­to la co­sa che più la ec­ci­ta­va. Rag­giun­to l’orgasmo, con le gam­be pre­se da un rap­tus, era co­stret­ta a reg­ger­si a qual­co­sa per non ca­de­re dal ga­bi­net­to. L’unica co­sa da af­fer­ra­re, in quei ca­si, era la ca­te­na del­lo sca­ri­co.

Mi­che­le, dall’altro la­to, sem­bra­va fa­ces­se di tut­to per re­pri­me­re gli stes­si im­pul­si, ugua­li e con­tra­ri. In quel pe­rio­do, per te­ner­si oc­cu­pa­to, ave­va ini­zia­to a la­vo­ra­re in una pic­co­la li­bre­ria del cen­tro. Non ave­va cer­to bi­so­gno di sol­di – l’eredità era ab­ba­stan­za so­stan­zio­sa da ga­ran­tir­gli al­tri die­ci o for­se vent’anni di vi­ta agia­ta – ma ac­cu­sa­va un bi­so­gno as­so­lu­to di non pen­sa­re a lei, al­la sua so­rel­li­na. Per un po’ fun­zio­nò: nel me­se di ago­sto la li­bre­ria si riem­pì di clien­ti – ma­dri im­paz­zi­te e pa­dri ina­de­gua­ti, tut­ti in cer­ca di qual­che ri­spar­mio sui li­bri sco­la­sti­ci – e il ca­ri­co di la­vo­ro era tan­to da im­pe­gnar­gli i pen­sie­ri del gior­no e i so­gni del­la not­te. In li­bre­ria, Mi­che­le era bom­bar­da­to di ri­chie­ste, or­di­ni, con­si­gli, i suoi oc­chi ve­ni­va­no col­pi­ti da cen­ti­na­ia di co­per­ti­ne di li­bri, ma­nua­li e di­zio­na­ri. Al­cu­ni li­bri era­no gli stes­si che ave­va usa­to al li­ceo, e ri­ve­der­li lo co­strin­ge­va a ri­pen­sa­re a que­gli an­ni. Era­no sta­ti an­ni vuo­ti, pie­ni di no­ia e fru­stra­zio­ne. Ma ades­so che la­vo­ra­va an­che no­ve, die­ci, un­di­ci ore al gior­no, Mi­che­le ini­zia­va a ri­va­lu­ta­re quell’età co­sì no­io­sa, e tut­to som­ma­to se­re­na. La stan­chez­za del cor­po uc­ci­de­va la li­bi­do. E di not­te, il suo in­con­scio vo­mi­ta­va so­lo im­ma­gi­ni di li­bri. Un con­ti­nuo in­cu­bo di car­ta. Ma da me­tà set­tem­bre il rit­mo di la­vo­ro ral­len­tò ver­ti­gi­no­sa­men­te, tan­to che Mi­che­le tro­vò per la pri­ma vol­ta il tem­po di sof­fer­mar­si sul­le li­nee del­le clien­ti. Le don­ne di mez­za età non lo in­te­res­sa­va­no. An­zi, lo schi­fa­va­no. Ad at­trar­lo era­no in­ve­ce le ra­gaz­zi­ne, le gio­va­ni stu­den­tes­se del li­ceo. Lui ave­va ven­ti­due an­ni, ma le clien­ti gli da­va­no già del lei. E que­sta co­sa lo ec­ci­ta­va, per­ché non fa­ce­va che ac­cen­tua­re la di­stan­za, in fat­to di età, tra lui e la ra­gaz­zi­na di tur­no. In quel pe­rio­do, la li­bre­ria si fe­ce per lui un luo­go di ten­ta­zio­ne. Le gam­be sot­ti­li del­le stu­den­tes­se gli ri­cor­da­va­no quel­le di sua so­rel­la, co­sì co­me le vo­ci dol­ci, i pol­si tin­tin­nan­ti di brac­cia­li e i sor­ri­si ap­pun­ti­ti. Mi­che­le fis­sa­va que­ste ra­gaz­ze il più pos­si­bi­le, strin­ge­va una ma­no a pu­gno e la spin­ge­va sul mo­ga­no del ban­co­ne. Era­no co­sì de­li­zio­se. Era­no co­sì vi­ci­ne.

 

***

 

Nel­le set­ti­ma­ne che se­gui­ro­no, la ca­sa as­sun­se un aspet­to splen­di­do. La Ma­dre con­ti­nua­va a spaz­za­re, stro­fi­na­re, pu­li­re. Gli uni­ci spa­zi che an­da­va­no al di là del suo con­trol­lo igie­ni­co era­no le stan­ze dei fi­gli. Gia­da e Mi­che­le era­no so­li­ti cac­ciar­la quan­do lei bus­sa­va al­le lo­ro por­te, ed en­tram­bi ave­va­no l’abitudine di chiu­de­re a chia­ve la pro­pria stan­za pri­ma di ab­ban­do­na­re la ca­sa, por­tan­do con sé le ri­spet­ti­ve chia­vi.

In un po­me­rig­gio d’ottobre, Gia­da si sta­va ma­stur­ban­do sul suo let­to, in pre­da al­la so­li­ta fu­ria ses­sua­le. Le sue gam­be ben aper­te – e tut­ti i mu­sco­li del brac­cio im­pe­gna­ti nel tra­fig­ge­re la vul­va con una gros­sa zuc­chi­na, ru­ba­ta il gior­no pri­ma dal­la cu­ci­na e già pro­ta­go­ni­sta di due or­ga­smi fol­go­ran­ti. Il suo­no mor­bi­do e ba­gna­to del­la zuc­chi­na che sbat­te­va nel­la fi­ga e l’intenso tra­spor­to psi­chi­co del mo­men­to non le per­mi­se­ro di sen­ti­re che qual­cu­no sta­va bus­san­do al­la sua por­ta. Con gli oc­chi se­mi­chiu­si, Gia­da in­tra­vi­de la por­ta aprir­si len­ta­men­te. Spa­lan­cò gli oc­chi, spe­ran­zo­sa, pen­san­do che si trat­tas­se del fra­tel­lo­ne. E in­ve­ce si tro­vò da­van­ti lei, sua Ma­dre, con la sco­pa in ma­no. Gia­da le ur­lò con­tro con vio­len­za, la Ma­dre chiu­se la por­ta in un istan­te. Que­sta ri­pre­se a pu­li­re con rit­mo esa­gi­ta­to, gli oc­chi scon­vol­ti. Pu­li­va con an­co­ra più fo­ga, più a fon­do, nel­lo stes­so pun­to sul qua­le era ap­pe­na pas­sa­ta. Era co­sì scos­sa che non si ac­cor­se di es­ser­si fat­ta trop­po in­die­tro, di aver mes­so un pie­de nel vuo­to, ver­so le sca­le.

Il ru­mo­re del­le os­sa che si spez­za­no.

 

***

 

La Ma­dre se la ca­vò con un tu­to­re al col­lo, un brac­cio e una gam­ba in­ges­sa­ti, e di­ver­si li­vi­di dall’aspetto pre­oc­cu­pan­te. Ora se­de­va a let­to, in uno sta­to ca­ta­to­ni­co e pie­to­so. Mi­che­le si im­pe­gnò per rias­su­me­re la vec­chia do­me­sti­ca. L’immagine del­la Ma­dre in­ges­sa­ta con lo sguar­do im­mo­bi­le ver­so il te­le­vi­so­re era trop­po pa­te­ti­ca per i due fi­gli: era me­glio che qualcun’altro si oc­cu­pas­se di lei.

In quei gior­ni, Mi­che­le la­sciò il la­vo­ro. Ne­gli ul­ti­mi tem­pi era co­sì os­ses­sio­na­to dal pen­sie­ro del ses­so che an­che le azio­ni più in­no­cue pro­vo­ca­va­no in lui im­ma­gi­ni d’incesto. Quan­do un clien­te chie­de­va che gli ve­nis­se­ro mes­si da par­te dei li­bri, lui li rag­grup­pa­va con de­gli ela­sti­ci lar­ghi e re­si­sten­ti, co­me il ti­to­la­re gli ave­va in­se­gna­to a fa­re. Ma quel ge­sto, or­mai, si era fat­to per lui mo­ti­vo d’erotismo. Per af­fer­ra­re un pac­co di li­bri per l’elastico chiu­de­va la ma­no a pu­gno, con le di­ta ver­so l’alto – la stes­sa ma­no che strin­ge il reg­gi­se­no di Gia­da men­tre lui la fot­te da die­tro.

La schie­na inar­ca­ta di lei.

Il di­se­gno del­le sue sca­po­le nel­la se­mi-oscu­ri­tà.

I ca­pel­li ne­ri che dan­za­no in tut­te le di­re­zio­ni.

Ge­mi­ti acu­ti che ta­glia­no l’aria.

La­sciò il la­vo­ro.

 

***

 

La dol­ce pas­sio­ne di Gia­da per le zuc­chi­ne coin­vol­se an­che al­tri ci­bi dal­la for­ma fal­li­ca. Ba­na­ne, ce­trio­li, ca­ro­te… Una vol­ta Gia­da tro­vò in cu­ci­na un in­te­ro grap­po­lo d’uva e non po­té re­si­ste­re: sul suo let­to co­min­ciò a stac­ca­re gli aci­ni uno ad uno e a fic­car­se­li nel­la fi­ga, sem­pre uno ad uno. Il suo me­to­do era ri­go­ro­so, la sua cu­rio­si­tà sin­ce­ra, scien­ti­fi­ca. Si chie­de­va quan­ti chic­chi avreb­be po­tu­to ac­co­glie­re. E la ri­spo­sta era ot­to. Ot­to chic­chi. Che poi espul­se men­tre si tor­men­ta­va il cli­to­ri­de con le di­ta. L’ultimo chic­co sci­vo­lò fuo­ri – ven­ne di­vo­ra­ta da un or­ga­smo – una cre­pa la spac­cò in due. Non si sen­ti­va più fat­ta di car­ne e os­sa, ma di pol­pa e se­mi.

I chic­chi ba­gna­ti e lu­ci­di ri­flet­te­va­no la lu­ce del mat­ti­no.

Frut­ta e ver­du­ra sci­vo­la­va­no be­ne in lei, ma in quel pe­rio­do Gia­da sco­prì an­che una cer­ta pas­sio­ne per la car­ne. Ne man­gia­va in gran quan­ti­tà, con una pre­di­le­zio­ne per quel­la ros­sa. La frut­ta spor­ca, in­ve­ce, pre­fe­ri­va ri­met­ter­la al suo po­sto, nel fri­go o in una ce­sta sul ta­vo­lo in le­gno. Il pen­sie­ro di Mi­che­le che si de­li­zia con i suoi frut­ti la ec­ci­ta­va co­me una be­stia. Cer­to, mol­te zuc­chi­ne, chic­chi d’uva e ca­ro­te avreb­be­ro rag­giun­to an­che la boc­ca del­la Ma­dre. Ma quel­lo a Gia­da non im­por­ta­va.

Mi­che­le non si ac­cor­se mai del gu­sto trop­po aci­du­lo dell’uva, ma no­tò un al­tro com­por­ta­men­to in­so­li­to in sua so­rel­la. Or­mai qua­si ogni gior­no, Mi­che­le tro­va­va un pa­io di mu­tan­di­ne al­la ba­se del bi­det. Spor­che e ab­ban­do­na­te. Se ne ac­cor­se per la pri­ma vol­ta pro­prio men­tre si ab­bas­sa­va per pu­lir­si il caz­zo. Sen­tì di aver mes­so il pie­de in qual­co­sa di mor­bi­do, guar­dò in bas­so e vi­de il suo pie­de ri­co­per­to di piz­zo ne­ro.

Le mu­tan­di­ne che Gia­da ab­ban­do­na­va sul­le pia­strel­le era­no mol­to di­ver­se tra lo­ro. Al­cu­ne più spor­ti­ve e mi­ni­ma­li, al­tre sot­ti­li e dai ri­ca­mi so­fi­sti­ca­ti. Ne­re, ros­se, bian­che, ro­sa… ma tut­te spor­che, a vol­te spor­chis­si­me. Una stri­scia­ta bian­ca le se­gna­va tut­te. Con la pri­ma mu­tan­di­na, quel­la ne­ra, Mi­che­le av­vi­ci­nò la pun­ta del­la lin­gua a quel­la ro­ba bian­ca, e un sa­po­re aci­do e for­tis­si­mo lo col­pì. Il sa­po­re di sua so­rel­la.

In Mi­che­le si fe­ce for­te l’idea che Gia­da la­scias­se le mu­tan­di­ne in bel­la vi­sta non per fret­ta o per in­dif­fe­ren­za, ma spin­ta da pro­fon­da ma­li­zia. Le la­scia­va per­ché le tro­vas­se lui. Per­ché le toc­cas­se, le as­sa­po­ras­se, e ma­ga­ri le in­dos­sas­se. Il fra­tel­lo non si li­mi­ta­va a go­der­ne, ma le fa­ce­va pro­prie. Le ru­ba­va e ne go­de­va, per poi na­scon­der­le. Una do­po l’altra, per gior­ni, ad ar­ric­chi­re la più su­bli­me del­le col­le­zio­ni. Poi pas­sò una set­ti­ma­na sen­za che ne tro­vas­se al­cu­na. A quel pun­to, Mi­che­le ne era cer­to. Sua so­rel­la an­da­va in gi­ro con la fi­ga al ven­to.

 

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***

Gia­da e Mi­che­le vi­ve­va­no le gior­na­te in ba­se ai rit­mi, ai ca­pric­ci e ai vi­zi di una gio­vi­nez­za in­con­trol­la­ta e fe­ro­ce. Man­gia­va­no quan­do ave­va­no fa­me, si ma­stur­ba­va­no quan­do ne ave­va­no vo­glia, in pie­no equi­li­brio con le pro­prie pul­sio­ni. Suc­ce­de­va quin­di che non si in­con­tras­se­ro spes­so al ta­vo­lo da pran­zo, du­ran­te i pa­sti. Sia per­ché en­tram­bi man­gia­va­no in sa­la co­sì co­me in qual­sia­si al­tro luo­go del­la ca­sa, sia per­ché gli ora­ri era­no tan­to va­ria­bi­li da non per­met­te­re ai due di in­cro­ciar­si di fre­quen­te. Dei pa­sti con­su­ma­ti in­sie­me co­mun­que ci fu­ro­no.

Quel gior­no se­de­va­no al ta­vo­lo del­la sa­la. La fi­ne­stra spa­lan­ca­ta, il suo­no dei gril­li. Gia­da il­lu­mi­na­ta fron­tal­men­te dal­la lu­ce di mez­zo­gior­no – i suoi ca­pel­li ne­ri im­pre­zio­si­ti dai ri­fles­si – e Mi­che­le col­to di la­to dal­la stes­sa lu­ce, ad ac­cen­tuar­gli il po­mo d’Adamo. Lei ma­sti­ca­va vo­ra­ce una bi­stec­ca cot­ta al san­gue. Lui ave­va già fi­ni­to un piat­to di pa­sta ma, an­co­ra af­fa­ma­to, pro­vò a sa­ziar­si con dell’uva. La ce­sta con la frut­ta era al cen­tro del­la ta­vo­la, e quan­do Mi­che­le si spor­ge­va in avan­ti per pren­de­re qual­che chic­co, lan­cia­va uno sguar­do vio­len­to tra le gam­be del­la so­rel­la.

Gia­da in­dos­sa­va una gon­na gial­lo ca­na­ri­no e una ca­mi­cia leg­ge­ra. Ri­cam­bia­va con sguar­di al­tret­tan­to in­ten­si, at­trat­ta dal­le spal­le ro­bu­ste del fra­tel­lo, dal­le ve­ne spor­gen­ti sul­le sue brac­cia, dal­la bar­ba cor­ta e ben ra­sa­ta. Lo ve­de­va mor­de­re i chic­chi, ba­gnar­si le lab­bra di suc­co. Si muo­ve­va in mo­do gof­fo e si­cu­ro al tem­po stes­so, con fa­re pri­mi­ti­vo e in­sie­me in­dif­fe­ren­te. Il ven­to leg­ge­ro che en­tra­va dal­la fi­ne­stra da­va vi­ta al­le pie­ghe sui suoi ve­sti­ti. Gia­da sen­ti­va l’aria che le ac­ca­rez­za­va la fi­ga e pro­vò un nuo­vo pia­ce­re. Non le era mai suc­ces­so di ba­gnar­si co­sì sen­za toc­car­si. Con una ma­no si si­ste­mò la gon­na, che si era al­za­ta un po’ trop­po, per poi ac­ca­rez­zar­si la co­scia. Nel fa­re quel ge­sto sem­pli­ce si sen­tì un’altra: più adul­ta, più pa­dro­na del­la pro­pria bel­lez­za.

Lo sguar­do di Mi­che­le ven­ne di­strat­to da qual­co­sa. Guar­da­va ver­so la fi­ne­stra, con­cen­tra­to su un ci­pres­so che on­deg­gia­va pia­no, mos­so dal ven­to. Gia­da ap­pro­fit­tò del mo­men­to e spo­stò le sue gam­bet­te nu­de su quel­le del fra­tel­lo, con leg­ge­rez­za, se­guen­do la di­re­zio­ne del ven­to. Lui tor­nò al­la real­tà e si ri­tro­vò in un mon­do ca­po­vol­to. Il re­spi­ro di Mi­che­le era cam­bia­to. La sua ma­no era ca­du­ta sul­la gam­ba del­la so­rel­li­na, e dal gi­noc­chio si spo­stò su, sul­la co­scia mor­bi­da e car­no­sa, fi­no a fic­car­si sot­to la gon­na. L’interno del­la co­scia era umi­do e le di­ta vi sci­vo­la­va­no con dol­cez­za. Mi­che­le si sen­ti­va lo sguar­do di lei ad­dos­so. I suoi oc­chi gran­di si era­no fat­ti im­plo­ran­ti, co­me se chie­des­se­ro di met­te­re fi­ne a quel­la dan­za len­ta per ar­ri­va­re su­bi­to al dun­que. Mi­che­le sol­le­vò quin­di la gon­na con uno scat­to del­la ma­no e vi­de per la pri­ma vol­ta l’origine del­le sue os­ses­sio­ni: il dol­ce frut­to del­la sua so­rel­li­na. Gia­da al­lo­ra mi­se una ma­no sui jeans del fra­tel­lo. La pat­ta era du­ra e lui non sen­tì nien­te, ma fu un’immagine nuo­va ed ec­ci­tan­te, le un­ghie di lei in mez­zo al­le sue gam­be. Il fra­tel­lo si al­zò di col­po e per un at­ti­mo de­stò in Gia­da uno scon­vol­gi­men­to to­ta­le, la sen­sa­zio­ne di quan­do si sta per ac­ce­de­re a un al­tro mon­do, più bel­lo, più li­be­ro, e si vie­ne sve­glia­ti da qual­co­sa al di fuo­ri del pro­prio con­trol­lo. Il pen­sie­ro che Mi­che­le vo­les­se ri­bel­lar­si a tan­ta osce­ni­tà la at­tra­ver­sò con vio­len­za, ma il fra­tel­lo si fe­ce avan­ti – la pat­ta dei pan­ta­lo­ni sul pun­to di esplo­de­re – af­fer­rò la ra­gaz­za da sot­to le ascel­le e la sol­le­vò co­me se non pe­sas­se nien­te. Il pic­co­lo cor­po di Gia­da, ste­so sul ta­vo­lo, tra avan­zi di ci­bo, piat­ti spor­chi e chic­chi d’uva, chie­de­va di es­se­re mor­so, di­vo­ra­to. Il suo vol­to era in­cor­ni­cia­to dal cen­tro­ta­vo­la in piz­zo bian­co, lo stes­so che il Pa­dre ave­va af­fer­ra­to al suo ul­ti­mo pa­sto. Mi­che­le la guar­dò be­ne, ti­rò fuo­ri il caz­zo du­ro e l’avvicinò al ta­glio del­la so­rel­la. La fi­ga gron­dan­te di suc­co, le gam­be scos­se da un’euforia ba­star­da, gli oc­chi il­lu­mi­na­ti da una gio­ia di­spe­ra­ta. Che bel­lo tra­di­re il mon­do. 

 

***

 

Fiot­ti di sper­ma in un ni­do fa­mi­lia­re.

Ma uno stra­no odo­re li ri­chia­ma­va all’ordine.

 

***

 

I rap­por­ti d’incesto si fe­ce­ro fre­quen­ti. Si suc­ce­de­va­no con lo stes­so rit­mo del­le pas­sa­te ma­stur­ba­zio­ni di lei e del­le or­mai lon­ta­ne re­pres­sio­ni di lui, nel ten­ta­ti­vo di­spe­ra­to di re­cu­pe­ra­re il tem­po per­so. La fre­ne­sia ses­sua­le che per me­si ave­va scos­so il cor­po di uno si sta­va fi­nal­men­te sfo­gan­do sul cor­po dell’altro. Un in­con­tro con­ti­nuo e su­bli­me di pel­li e di li­qui­di, una me­sco­lan­za fe­ro­ce di car­ni e di odo­ri. Ora il de­si­de­rio si po­te­va toc­ca­re. 

I luo­ghi pre­di­let­ti dal­la cop­pia era­no gli stes­si che ave­va­no tan­to ali­men­ta­to le lo­ro fan­ta­sie: la sa­la da pran­zo e il ba­gno. La du­rez­za del ta­vo­lo in mo­ga­no li sti­mo­la­va al­me­no quan­to le pia­strel­le in­su­di­cia­te e fred­de del ba­gno. L’umido del ci­bo, il ba­gna­to del pi­scio, il pen­sie­ro del­lo schi­fo li man­da­va in esta­si. Il lo­ro amo­re si fa­ce­va for­te del­la car­ne e del­la frut­ta, del pi­scio e del­lo sper­ma. L’unica co­sa tan­to ri­vol­tan­te da po­ter fre­na­re la lo­ro li­bi­do era un cer­to fe­to­re di mor­te, den­so e in­so­ste­ni­bi­le. Lo ave­va­no av­ver­ti­to in sa­la da pran­zo, do­po la lo­ro pri­ma vol­ta, e da al­lo­ra non li ave­va più ab­ban­do­na­ti. Mi­che­le e Gia­da pro­va­ro­no a rin­trac­ciar­ne l’origine, ma sen­za suc­ces­so. Quell’odore era to­ta­liz­zan­te. Lo si per­ce­pi­va tan­to for­te e di­sgu­sto­so in cu­ci­na quan­to in sa­la da pran­zo, in sa­lot­to co­me nel­lo stu­dio. L’unica co­sa chia­ra, al ri­guar­do, era che il fe­to­re col­pi­va il pian­ter­re­no, ma mol­to me­no il pri­mo pia­no. E co­sì, Gia­da e Mi­che­le, per i lo­ro in­con­tri, fu­ro­no co­stret­ti ad ab­ban­do­na­re il ta­vo­lo del­la sa­la per spo­star­si de­fi­ni­ti­va­men­te in ba­gno. Al­la do­me­sti­ca fu or­di­na­to di pu­li­re il dop­pio, an­che a co­sto di non cu­ci­na­re, per­ché quel­la puz­za di mar­cio sta­va con­ta­mi­nan­do tut­te le stan­ze del­la ca­sa, e co­sì i pen­sie­ri, i so­gni e le pul­sio­ni di chi la abi­ta­va. Il le­gno del par­quet era or­mai pre­gno di quell’invisibile sen­to­re di mor­te, e con­su­ma­re qual­sia­si rap­por­to all’interno del­la ca­sa sta­va di­ven­tan­do un’impresa in­so­ste­ni­bi­le. Ma se non in ca­sa, do­ve? Mi­che­le e Gia­da non po­te­va­no cer­to espor­re il lo­ro amo­re agli oc­chi di una pic­co­la cit­tà di pro­vin­cia. I lo­ro bi­so­gni do­ve­va­no es­se­re ap­pa­ga­ti nel­la ca­sa. Dal­la ca­sa. 

Più i gior­ni pas­sa­va­no, più i due fot­te­va­no. E più i due fot­te­va­no, più quell’odore si fa­ce­va in­va­den­te. Una mat­ti­na, Gia­da si sve­gliò in un let­to di san­gue. Di fat­ti, aven­do ri­nun­cia­to a tut­te le sue mu­tan­di­ne, fu co­stret­ta a mac­chiar­si del­le pro­prie me­strua­zio­ni. E men­tre si pu­li­va le gam­be dal san­gue, ven­ne rag­giun­ta in ba­gno da Mi­che­le. Lui, che si era sve­glia­to con una gros­sa ere­zio­ne, di quel­le che fan­no ma­le, le dis­se che vo­le­va pos­se­der­la lo stes­so. Ma da die­tro. 

Mi­che­le: nu­do, in gi­noc­chio ver­so il cu­lo aper­to del­la so­rel­la, il pi­sel­lo du­ro in una ma­no. 

Gia­da: nu­da, di­ste­sa sul pa­vi­men­to col cu­lo al ven­to – una man­cia­ta di car­ta igie­ni­ca nel­la boc­ca spa­lan­ca­ta – in at­te­sa del pia­ce­re. 

Lui af­fer­rò la ra­gaz­za per un fian­co – con una ma­no si stro­fi­na­va il pi­sel­lo in uno spu­to. 

Gia­da mor­se d’istinto la car­ta igie­ni­ca. Si sen­tì tra­fit­ta tra le vi­sce­re, in un’estasi di do­lo­re. E con­ti­nua­ro­no co­sì, lui a spin­ge­re in lei e lei a sof­fri­re di pia­ce­re. Gia­da con­ti­nua­va a per­de­re san­gue, e il ros­so del­le sue me­strua­zio­ni si me­sco­lò al gial­lo dell’urina. Lo sguar­do ca­ta­pul­ta­to ver­so il cie­lo, il cal­do del san­gue sul fred­do del­le pia­strel­le. Mi­che­le pre­se a spin­ge­re for­te, con vee­men­za. Te­ne­va il cu­lo di lei aper­to con en­tram­be le ma­ni, e con la cu­rio­si­tà del sa­di­co spin­ge­va sem­pre più for­te per an­da­re an­co­ra più a fon­do, so­lo per sco­pri­re fin do­ve po­tes­se ar­ri­va­re. Le ur­la di Gia­da as­sun­se­ro un’altra gra­vi­tà. Non le pia­ce­va que­sto nuo­vo mo­do di fa­re l’amore, in mez­zo al­la lu­ce du­ra e fred­da di un gior­no di tem­pe­sta: per­ché non po­te­va es­se­re co­me le al­tre vol­te? Spe­cial­men­te og­gi, che la sua fi­ga era un fuo­co e il suo amo­re era tan­to. Le pia­strel­le bian­che e fred­de non la ec­ci­ta­va­no più. Era­no quel­le di un obi­to­rio.

Una vam­pa­ta ma­leo­do­ran­te in­va­se la stan­za. Era quell’odore dan­na­to, che pe­ne­tra­va le na­ri­ci del­la cop­pia con vio­len­za, tan­to da ca­po­vol­ge­re il lo­ro pia­ce­re in una nau­sea pro­fon­da. Gia­da spu­tò la pal­la di car­ta igie­ni­ca, che era zup­pa di ba­va. I suoi oc­chi pre­se­ro a la­cri­ma­re. Ur­lò Ba­sta! Ba­sta, ti pre­go! Sbat­te­va una ma­no sul­le pia­strel­le, di­spe­ra­ta. Ma lui, di­sgu­sta­to al­me­no quan­to lei, non riu­sci­va a fer­mar­si, e con­ti­nuò a in­cu­lar­la in mez­zo a quel­la puz­za. Lo tur­ba­va­no di­ver­se co­se: la vi­sta del san­gue, quell’odore atro­ce, e una sen­sa­zio­ne stra­na, in­de­fi­ni­bi­le, che gli at­tra­ver­sa­va il cor­po e lo scuo­te­va nel pro­fon­do. Era scos­so, sì. Ma non po­te­va che fot­te­re. 

Le ur­la del­la ra­gaz­za fu­ro­no av­ver­ti­te per­si­no dal­la Ma­dre e dal­la sua ba­dan­te. La pri­ma lan­ciò uno sguar­do spa­ven­ta­to ver­so la por­ta e sem­brò per un at­ti­mo ri­sve­gliar­si dal suo sta­to ca­ta­to­ni­co. La se­con­da, in­ve­ce, che ave­va col­to i due ra­gaz­zi nel­le lo­ro osce­ni­tà più di una vol­ta in sa­la da pran­zo, fe­ce fin­ta di nien­te. Co­me le al­tre vol­te. Sen­ti­to il pri­mo ur­lo le ven­ne so­lo da striz­za­re gli oc­chi – le tor­nò al­la men­te l’immagine stri­scian­te di quei due gio­va­ni stret­ti tra gli avan­zi di ci­bo – e poi ri­pre­se a im­boc­ca­re quel cor­po su­pi­no con un cuc­chia­io col­mo di zup­pa. E co­sì la Ma­dre ri­pre­se a man­da­re giù la zup­pa. Nel­la te­le­vi­sio­ne ai pie­di del let­to la re­pli­ca di una vec­chia te­le­no­ve­la. 

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Mi­che­le con­ti­nua­va a spin­ge­re, più ve­lo­ce, sem­pre più ve­lo­ce. 

Il caz­zo gli sci­vo­lò fuo­ri.

E l’immagine del suo pi­sel­lo spor­co di mer­da e san­gue vio­len­tò il suo sguar­do. 

La ra­gaz­za ap­pro­fit­tò del mo­men­to per tra­sci­nar­si lon­ta­na dal fra­tel­lo. D’improvviso si sen­ti­va spor­ca e vio­la­ta. Si ran­nic­chiò in un an­go­lo del ba­gno, na­sco­sta die­tro al ces­so. Guar­da­va il fra­tel­lo con oc­chi di ter­ro­re, le la­cri­me fi­no ai se­ni. Sem­bra­va che quel tan­fo in­fa­me aves­se in­qui­na­to per sem­pre il lo­ro amo­re. 

Che ne sa­reb­be sta­to, ades­so, di lo­ro?

Mi­che­le al­zò lo sguar­do ver­so la pic­co­la Gia­da e dis­se Ho ca­pi­to da do­ve vie­ne que­sta puz­za. 

 

***

 

Nu­di e spor­chi, ora i due gio­va­ni si tro­va­va­no in sa­la da pran­zo. Mi­che­le dis­se al­la so­rel­la Aiu­ta­mi, e in­sie­me, con gran­de sfor­zo, spin­se­ro via il ta­vo­lo in mo­ga­no. Il ta­vo­lo, dal­la ba­se im­por­tan­te, ave­va sem­pre co­per­to una ma­ni­glia in­ca­stra­ta nel pa­vi­men­to, di cui Gia­da igno­ra­va l’esistenza. Mi­che­le af­fer­rò quel­la ma­ni­glia e una par­te del par­quet si sol­le­vò: era l’accesso a un mon­do sot­ter­ra­neo. Da­van­ti a lo­ro si pre­sen­tò una sca­li­na­ta. E il buio. 

I due ven­ne­ro tra­vol­ti da un’ondata di fe­to­re. Te­ne­va­no il na­so pre­mu­to sul brac­cio, per­ché le ma­ni di en­tram­bi era­no trop­po su­di­ce per por­tar­se­le al vi­so. Sce­se­ro nell’oscurità, Mi­che­le da­van­ti e Gia­da al se­gui­to. I gra­di­ni di le­gno mar­cio scric­chio­la­va­no sot­to i lo­ro pie­di. En­tram­bi av­ver­ti­ro­no un suo­no stri­scian­te. Le ra­gna­te­le sul vol­to, la pol­ve­re a riem­pi­re i pol­mo­ni. Gia­da con­ti­nua­va a ri­pe­te­re Ho pau­ra, Mi­che­le. E Mi­che­le con­ti­nua­va a zit­tir­la. Fi­ni­ti gli sca­li­ni, si ri­tro­va­ro­no uno ac­can­to all’altra, nu­di nel buio che fa pau­ra.  

Mi­che­le av­vi­ci­nò la ma­no a una cor­di­cel­la pen­zo­lan­te. Una lam­pa­di­na il­lu­mi­nò la sce­na. E la sce­na era la peg­gio­re.

Il Pa­dre se­de­va su una se­dia, in avan­za­to sta­to di de­com­po­si­zio­ne. Le lar­ve bru­li­can­ti nei bu­chi de­gli oc­chi, il cer­vel­lo ri­dot­to a una pap­pa, una ma­no già di­vo­ra­ta da­gli in­set­ti e dal tem­po. Uno spet­ta­co­lo osce­no. Un pa­dre di­strut­to. Un pa­dre pre­sen­te. 

Gia­da sven­ne di col­po e con la te­sta fra­cas­sò l’ultimo sca­li­no. Mi­che­le la guar­da­va dall’alto: la sa­go­ma di sua so­rel­la nu­da, in­san­gui­na­ta, ap­pe­na trat­teg­gia­ta da­gli echi di lu­ce di una lam­pa­di­na don­do­lan­te. Si ac­cor­se su­bi­to di ave­re una gros­sa ere­zio­ne… e pre­se a pian­ge­re, con­fu­so, spa­ven­ta­to, or­mai or­fa­no di pa­dre quan­to di lu­ci­di­tà. Co­sì, in mez­zo a quel­la puz­za di mor­te, sua so­rel­la, mac­chia­ta di pi­scio, san­gue e mer­da, si mac­chiò an­che di la­cri­me. Per sem­pre. 

 

**********

 

Era tar­di. Mi­che­le pas­sò da­van­ti la por­ta del ba­gno e sen­tì dei sin­ghioz­zi. 

Ma stai pian­gen­do?

Gia­da?

La por­ta si aprì di po­co. Mi­che­le en­trò nel ba­gno e vi­de sua so­rel­la in pie­di, la te­sta bas­sa, le tet­te nu­de, ba­gna­te di la­cri­me. In­dos­sa­va una ma­glia bian­ca strap­pa­ta in più pun­ti. La pic­co­la lam­pa­di­na a in­can­de­scen­za so­pra lo spec­chio la il­lu­mi­na­va di la­to, con dol­cez­za. La lu­ce del­la lu­na, in­ve­ce, met­te­va in ri­sal­to i suoi con­tor­ni – i ca­pel­li spet­ti­na­ti, gli strap­pi sul­la ma­glia. Mi­che­le pro­vò a di­re qual­co­sa ma non gli usci­ro­no le pa­ro­le. 

Non mi chie­de­re nul­la…

Va be­ne.

Ho fred­do – e pre­se a pian­ge­re più for­te. 

Mi­che­le af­fer­rò un gros­so asciu­ga­ma­no e ci av­vol­se sua so­rel­la. Lei schiac­ciò la fac­cia nel pet­to di lui. Tre­ma­va. 

Ti por­to a let­to, dai. 

No…

Gia­da…

Non mi la­scia­re – una la­cri­ma le ca­de­va dal ca­pez­zo­lo. 

Non ti la­scio – tro­vò il co­rag­gio di ab­brac­cia­re la so­rel­la. 

Ri­ma­se­ro a lun­go sen­za muo­ver­si, in una not­te stra­na, stret­ti nell’ignoto. Dor­mi­ro­no in­sie­me, nel let­to di lui. Quel­la not­te Gia­da com­pi­va do­di­ci an­ni. 

 

***

 

L’amore è una co­sa osce­na.

 

***