Testi di
Jacopo Abballe
Disegni di
Gahel Zesi
Editing di
Simone La Penna
Categoria
Narrazioni rotte
Data di pubblicazione
21 Marzo 2023
La casa oscena
Il candelabro senza candele, i calici senza vino, i piatti senza carne. Michele e Giada, fratello e sorella, seduti uno davanti all’altra. Madre e Padre, uno per ogni capo del tavolo, non si erano scambiati uno sguardo dall’inizio del pranzo. Solo il lungo centrotavola bianco, in pizzo, li univa.
Il grande tavolo in mogano assorbiva i raggi del sole. Una delicata sinfonia di posate accompagnava il momento. Tutta la compostezza di un pranzo del mercoledì.
Poi una scossa. Intestina. Tra le viscere del Padre. Lo sfintere colpito da spasmi violenti. L’ano boccheggiante, come in cerca di ossigeno. Le mani del Padre a stringere le budella, la fronte madida di sudore, la camicia bagnata sotto le ascelle. La nuova dieta vegetariana stava per dare i suoi frutti. Frutti marci e tossici. I figli si limitarono a lanciare uno sguardo curioso verso il Padre. Non ti senti bene, caro? chiese la Madre, dall’altro capo del tavolo. La mano tremolante del Padre afferrò il centrotavola, trascinandosi a terra piatti, calici, e pure il candelabro, che esplose di rumore. Caro, che succede?! Michele e Giada posarono i cucchiai colmi di fagioli. Dalla camicia del Padre saltarono uno, due, tre bottoni. L’uomo era a terra, circondato da cocci, vetri e fagioli, con la schiuma alla bocca e il culo stretto in una morsa. Gli tremavano le gambe, le braccia. Cercava di gattonare, ma non sembrava un bambino. Era solo patetico, colmo di dolore e merda. Ovunque metteva le mani si feriva, e quando si feriva cercava di smorzare un urlo, sbavando da tutte le parti. Si trascinò fuori dalla sala, con i palmi impastati di fagioli, sangue e vetri. La moglie e i due figli lo seguivano lenti, come in un’oscena processione. Perse una scarpa, che la Madre raccolse senza motivo. Lei urlava disperata, lui si mordeva il labbro e cercava di resistere. Quando finalmente riuscì a dire qualcosa, fu solo Andate via! Presto! Ma la famiglia gli restò accanto. Michele e Giada erano gli unici a godersi lo spettacolo. In fondo, quel panzone del Padre non era mai apparso così ridicolo. Non si era mai abbassato ai loro piedi. Era buffo vederlo così. Disperato. Il Padre spalancò tutte le dita della mano destra verso l’ingresso del bagno. Tremava sempre di più, ormai completamente steso sul pavimento, i capelli incollati sulla fronte, la schiena bagnata. Poi la mano si afflosciò anch’essa a terra e le labbra di lui riuscirono a dire Andate… ma nessuno lo sentì. Perché la Madre urlava isterica. Perché il Padre era morto. Con gli occhi spalancati e lo sguardo eterno sul cesso.
Michele si tappò le orecchie, Giada restò immobile. E il corpo del Padre riprese a muoversi, tremante. Una scarica di merda liquida divampò nei suoi pantaloni eleganti. Una scoreggia fragorosa e infinita riempì l’aria, una chiazza marrone si fece strada alla base del corpo. Il fetore era così intenso che sembrava di portelo mordere. Nella Madre, poi, esplose il bisogno di coprirsi gli occhi. Ma non servì a niente, perché quella era sì una morte che feriva gli occhi, ma che con la stessa forza si insinuava nelle narici, risuonava nelle orecchie, graffiava la gola. Da un momento all’altro, anche le mani di lei percepirono la morte, e lanciarono via la scarpa lucida che avevano raccolto. Giada e Michele guardavano a terra, verso la scarpa. I loro sguardi si incrociarono.
***
Il funerale si tenne due giorni dopo, a bara chiusa. La Madre, in prima fila, guardava verso la cassa con sguardo immobile. Gli occhi grigi e stanchi per le troppe lacrime, le occhiaie scure e le rughe più segnate che mai. Per un attimo la colpirono le venature del legno. È assurdo, pensò, sembra proprio il tavolo che abbiamo in sala da pranzo.
Michele e Giada indossavano grandi occhiali scuri. Si tennero per mano per tutta la durata della cerimonia.
***
I giorni successivi al funerale furono strani. La Madre passava intere giornate a pulire la grande villa. Si era sbarazzata della domestica solo per impegnare il suo tempo in qualche modo. Si trattava, certo, di una maniera per occupare la mente. Per cancellare il ricordo di un marito che esplode tra i suoi rifiuti, per liberare la casa dalla vergogna. Giorno dopo giorno, pulendo ogni superficie, sempre. Invano.
Giada e Michele, dal canto loro, non restarono certo indifferenti alla morte del Padre. Giada, che all’epoca aveva solo sedici anni, venne colta da una libido improvvisa e a lei sconosciuta. Ormai si masturbava anche due, tre, quattro volte al giorno. Il suo letto a baldacchino era il posto prediletto per consumare questo amore auto-riferito. Lì, con le gambe spalancate e la vulva in direzione della porta, poteva passare anche un’ora ad accarezzarsi, nella speranza che qualcuno entrasse nella stanza e la trovasse così. Nel vizio. Giada, però, non sdegnava luoghi più scomodi e sporchi, come il cesso. Talvolta, mentre cagava, era colta dall’impeto di masturbarsi. Non lo faceva sempre, ma solo quando il suo fratellone era appena passato di lì. La tavoletta conservava così il calore del culo fraterno. Altre volte, Giada sentiva Michele entrare e uscire dal bagno in meno di due minuti. Allora correva in bagno per bagnarsi i piedi nudi sulle piastrelle schizzate del suo piscio. Questa era in assoluto la cosa che più la eccitava. Raggiunto l’orgasmo, con le gambe prese da un raptus, era costretta a reggersi a qualcosa per non cadere dal gabinetto. L’unica cosa da afferrare, in quei casi, era la catena dello scarico.
Michele, dall’altro lato, sembrava facesse di tutto per reprimere gli stessi impulsi, uguali e contrari. In quel periodo, per tenersi occupato, aveva iniziato a lavorare in una piccola libreria del centro. Non aveva certo bisogno di soldi – l’eredità era abbastanza sostanziosa da garantirgli altri dieci o forse vent’anni di vita agiata – ma accusava un bisogno assoluto di non pensare a lei, alla sua sorellina. Per un po’ funzionò: nel mese di agosto la libreria si riempì di clienti – madri impazzite e padri inadeguati, tutti in cerca di qualche risparmio sui libri scolastici – e il carico di lavoro era tanto da impegnargli i pensieri del giorno e i sogni della notte. In libreria, Michele era bombardato di richieste, ordini, consigli, i suoi occhi venivano colpiti da centinaia di copertine di libri, manuali e dizionari. Alcuni libri erano gli stessi che aveva usato al liceo, e rivederli lo costringeva a ripensare a quegli anni. Erano stati anni vuoti, pieni di noia e frustrazione. Ma adesso che lavorava anche nove, dieci, undici ore al giorno, Michele iniziava a rivalutare quell’età così noiosa, e tutto sommato serena. La stanchezza del corpo uccideva la libido. E di notte, il suo inconscio vomitava solo immagini di libri. Un continuo incubo di carta. Ma da metà settembre il ritmo di lavoro rallentò vertiginosamente, tanto che Michele trovò per la prima volta il tempo di soffermarsi sulle linee delle clienti. Le donne di mezza età non lo interessavano. Anzi, lo schifavano. Ad attrarlo erano invece le ragazzine, le giovani studentesse del liceo. Lui aveva ventidue anni, ma le clienti gli davano già del lei. E questa cosa lo eccitava, perché non faceva che accentuare la distanza, in fatto di età, tra lui e la ragazzina di turno. In quel periodo, la libreria si fece per lui un luogo di tentazione. Le gambe sottili delle studentesse gli ricordavano quelle di sua sorella, così come le voci dolci, i polsi tintinnanti di bracciali e i sorrisi appuntiti. Michele fissava queste ragazze il più possibile, stringeva una mano a pugno e la spingeva sul mogano del bancone. Erano così deliziose. Erano così vicine.
***
Nelle settimane che seguirono, la casa assunse un aspetto splendido. La Madre continuava a spazzare, strofinare, pulire. Gli unici spazi che andavano al di là del suo controllo igienico erano le stanze dei figli. Giada e Michele erano soliti cacciarla quando lei bussava alle loro porte, ed entrambi avevano l’abitudine di chiudere a chiave la propria stanza prima di abbandonare la casa, portando con sé le rispettive chiavi.
In un pomeriggio d’ottobre, Giada si stava masturbando sul suo letto, in preda alla solita furia sessuale. Le sue gambe ben aperte – e tutti i muscoli del braccio impegnati nel trafiggere la vulva con una grossa zucchina, rubata il giorno prima dalla cucina e già protagonista di due orgasmi folgoranti. Il suono morbido e bagnato della zucchina che sbatteva nella figa e l’intenso trasporto psichico del momento non le permisero di sentire che qualcuno stava bussando alla sua porta. Con gli occhi semichiusi, Giada intravide la porta aprirsi lentamente. Spalancò gli occhi, speranzosa, pensando che si trattasse del fratellone. E invece si trovò davanti lei, sua Madre, con la scopa in mano. Giada le urlò contro con violenza, la Madre chiuse la porta in un istante. Questa riprese a pulire con ritmo esagitato, gli occhi sconvolti. Puliva con ancora più foga, più a fondo, nello stesso punto sul quale era appena passata. Era così scossa che non si accorse di essersi fatta troppo indietro, di aver messo un piede nel vuoto, verso le scale.
Il rumore delle ossa che si spezzano.
***
La Madre se la cavò con un tutore al collo, un braccio e una gamba ingessati, e diversi lividi dall’aspetto preoccupante. Ora sedeva a letto, in uno stato catatonico e pietoso. Michele si impegnò per riassumere la vecchia domestica. L’immagine della Madre ingessata con lo sguardo immobile verso il televisore era troppo patetica per i due figli: era meglio che qualcun’altro si occupasse di lei.
In quei giorni, Michele lasciò il lavoro. Negli ultimi tempi era così ossessionato dal pensiero del sesso che anche le azioni più innocue provocavano in lui immagini d’incesto. Quando un cliente chiedeva che gli venissero messi da parte dei libri, lui li raggruppava con degli elastici larghi e resistenti, come il titolare gli aveva insegnato a fare. Ma quel gesto, ormai, si era fatto per lui motivo d’erotismo. Per afferrare un pacco di libri per l’elastico chiudeva la mano a pugno, con le dita verso l’alto – la stessa mano che stringe il reggiseno di Giada mentre lui la fotte da dietro.
La schiena inarcata di lei.
Il disegno delle sue scapole nella semi-oscurità.
I capelli neri che danzano in tutte le direzioni.
Gemiti acuti che tagliano l’aria.
Lasciò il lavoro.
***
La dolce passione di Giada per le zucchine coinvolse anche altri cibi dalla forma fallica. Banane, cetrioli, carote… Una volta Giada trovò in cucina un intero grappolo d’uva e non poté resistere: sul suo letto cominciò a staccare gli acini uno ad uno e a ficcarseli nella figa, sempre uno ad uno. Il suo metodo era rigoroso, la sua curiosità sincera, scientifica. Si chiedeva quanti chicchi avrebbe potuto accogliere. E la risposta era otto. Otto chicchi. Che poi espulse mentre si tormentava il clitoride con le dita. L’ultimo chicco scivolò fuori – venne divorata da un orgasmo – una crepa la spaccò in due. Non si sentiva più fatta di carne e ossa, ma di polpa e semi.
I chicchi bagnati e lucidi riflettevano la luce del mattino.
Frutta e verdura scivolavano bene in lei, ma in quel periodo Giada scoprì anche una certa passione per la carne. Ne mangiava in gran quantità, con una predilezione per quella rossa. La frutta sporca, invece, preferiva rimetterla al suo posto, nel frigo o in una cesta sul tavolo in legno. Il pensiero di Michele che si delizia con i suoi frutti la eccitava come una bestia. Certo, molte zucchine, chicchi d’uva e carote avrebbero raggiunto anche la bocca della Madre. Ma quello a Giada non importava.
Michele non si accorse mai del gusto troppo acidulo dell’uva, ma notò un altro comportamento insolito in sua sorella. Ormai quasi ogni giorno, Michele trovava un paio di mutandine alla base del bidet. Sporche e abbandonate. Se ne accorse per la prima volta proprio mentre si abbassava per pulirsi il cazzo. Sentì di aver messo il piede in qualcosa di morbido, guardò in basso e vide il suo piede ricoperto di pizzo nero.
Le mutandine che Giada abbandonava sulle piastrelle erano molto diverse tra loro. Alcune più sportive e minimali, altre sottili e dai ricami sofisticati. Nere, rosse, bianche, rosa… ma tutte sporche, a volte sporchissime. Una strisciata bianca le segnava tutte. Con la prima mutandina, quella nera, Michele avvicinò la punta della lingua a quella roba bianca, e un sapore acido e fortissimo lo colpì. Il sapore di sua sorella.
In Michele si fece forte l’idea che Giada lasciasse le mutandine in bella vista non per fretta o per indifferenza, ma spinta da profonda malizia. Le lasciava perché le trovasse lui. Perché le toccasse, le assaporasse, e magari le indossasse. Il fratello non si limitava a goderne, ma le faceva proprie. Le rubava e ne godeva, per poi nasconderle. Una dopo l’altra, per giorni, ad arricchire la più sublime delle collezioni. Poi passò una settimana senza che ne trovasse alcuna. A quel punto, Michele ne era certo. Sua sorella andava in giro con la figa al vento.
***
Giada e Michele vivevano le giornate in base ai ritmi, ai capricci e ai vizi di una giovinezza incontrollata e feroce. Mangiavano quando avevano fame, si masturbavano quando ne avevano voglia, in pieno equilibrio con le proprie pulsioni. Succedeva quindi che non si incontrassero spesso al tavolo da pranzo, durante i pasti. Sia perché entrambi mangiavano in sala così come in qualsiasi altro luogo della casa, sia perché gli orari erano tanto variabili da non permettere ai due di incrociarsi di frequente. Dei pasti consumati insieme comunque ci furono.
Quel giorno sedevano al tavolo della sala. La finestra spalancata, il suono dei grilli. Giada illuminata frontalmente dalla luce di mezzogiorno – i suoi capelli neri impreziositi dai riflessi – e Michele colto di lato dalla stessa luce, ad accentuargli il pomo d’Adamo. Lei masticava vorace una bistecca cotta al sangue. Lui aveva già finito un piatto di pasta ma, ancora affamato, provò a saziarsi con dell’uva. La cesta con la frutta era al centro della tavola, e quando Michele si sporgeva in avanti per prendere qualche chicco, lanciava uno sguardo violento tra le gambe della sorella.
Giada indossava una gonna giallo canarino e una camicia leggera. Ricambiava con sguardi altrettanto intensi, attratta dalle spalle robuste del fratello, dalle vene sporgenti sulle sue braccia, dalla barba corta e ben rasata. Lo vedeva mordere i chicchi, bagnarsi le labbra di succo. Si muoveva in modo goffo e sicuro al tempo stesso, con fare primitivo e insieme indifferente. Il vento leggero che entrava dalla finestra dava vita alle pieghe sui suoi vestiti. Giada sentiva l’aria che le accarezzava la figa e provò un nuovo piacere. Non le era mai successo di bagnarsi così senza toccarsi. Con una mano si sistemò la gonna, che si era alzata un po’ troppo, per poi accarezzarsi la coscia. Nel fare quel gesto semplice si sentì un’altra: più adulta, più padrona della propria bellezza.
Lo sguardo di Michele venne distratto da qualcosa. Guardava verso la finestra, concentrato su un cipresso che ondeggiava piano, mosso dal vento. Giada approfittò del momento e spostò le sue gambette nude su quelle del fratello, con leggerezza, seguendo la direzione del vento. Lui tornò alla realtà e si ritrovò in un mondo capovolto. Il respiro di Michele era cambiato. La sua mano era caduta sulla gamba della sorellina, e dal ginocchio si spostò su, sulla coscia morbida e carnosa, fino a ficcarsi sotto la gonna. L’interno della coscia era umido e le dita vi scivolavano con dolcezza. Michele si sentiva lo sguardo di lei addosso. I suoi occhi grandi si erano fatti imploranti, come se chiedessero di mettere fine a quella danza lenta per arrivare subito al dunque. Michele sollevò quindi la gonna con uno scatto della mano e vide per la prima volta l’origine delle sue ossessioni: il dolce frutto della sua sorellina. Giada allora mise una mano sui jeans del fratello. La patta era dura e lui non sentì niente, ma fu un’immagine nuova ed eccitante, le unghie di lei in mezzo alle sue gambe. Il fratello si alzò di colpo e per un attimo destò in Giada uno sconvolgimento totale, la sensazione di quando si sta per accedere a un altro mondo, più bello, più libero, e si viene svegliati da qualcosa al di fuori del proprio controllo. Il pensiero che Michele volesse ribellarsi a tanta oscenità la attraversò con violenza, ma il fratello si fece avanti – la patta dei pantaloni sul punto di esplodere – afferrò la ragazza da sotto le ascelle e la sollevò come se non pesasse niente. Il piccolo corpo di Giada, steso sul tavolo, tra avanzi di cibo, piatti sporchi e chicchi d’uva, chiedeva di essere morso, divorato. Il suo volto era incorniciato dal centrotavola in pizzo bianco, lo stesso che il Padre aveva afferrato al suo ultimo pasto. Michele la guardò bene, tirò fuori il cazzo duro e l’avvicinò al taglio della sorella. La figa grondante di succo, le gambe scosse da un’euforia bastarda, gli occhi illuminati da una gioia disperata. Che bello tradire il mondo.
***
Fiotti di sperma in un nido familiare.
Ma uno strano odore li richiamava all’ordine.
***
I rapporti d’incesto si fecero frequenti. Si succedevano con lo stesso ritmo delle passate masturbazioni di lei e delle ormai lontane repressioni di lui, nel tentativo disperato di recuperare il tempo perso. La frenesia sessuale che per mesi aveva scosso il corpo di uno si stava finalmente sfogando sul corpo dell’altro. Un incontro continuo e sublime di pelli e di liquidi, una mescolanza feroce di carni e di odori. Ora il desiderio si poteva toccare.
I luoghi prediletti dalla coppia erano gli stessi che avevano tanto alimentato le loro fantasie: la sala da pranzo e il bagno. La durezza del tavolo in mogano li stimolava almeno quanto le piastrelle insudiciate e fredde del bagno. L’umido del cibo, il bagnato del piscio, il pensiero dello schifo li mandava in estasi. Il loro amore si faceva forte della carne e della frutta, del piscio e dello sperma. L’unica cosa tanto rivoltante da poter frenare la loro libido era un certo fetore di morte, denso e insostenibile. Lo avevano avvertito in sala da pranzo, dopo la loro prima volta, e da allora non li aveva più abbandonati. Michele e Giada provarono a rintracciarne l’origine, ma senza successo. Quell’odore era totalizzante. Lo si percepiva tanto forte e disgustoso in cucina quanto in sala da pranzo, in salotto come nello studio. L’unica cosa chiara, al riguardo, era che il fetore colpiva il pianterreno, ma molto meno il primo piano. E così, Giada e Michele, per i loro incontri, furono costretti ad abbandonare il tavolo della sala per spostarsi definitivamente in bagno. Alla domestica fu ordinato di pulire il doppio, anche a costo di non cucinare, perché quella puzza di marcio stava contaminando tutte le stanze della casa, e così i pensieri, i sogni e le pulsioni di chi la abitava. Il legno del parquet era ormai pregno di quell’invisibile sentore di morte, e consumare qualsiasi rapporto all’interno della casa stava diventando un’impresa insostenibile. Ma se non in casa, dove? Michele e Giada non potevano certo esporre il loro amore agli occhi di una piccola città di provincia. I loro bisogni dovevano essere appagati nella casa. Dalla casa.
Più i giorni passavano, più i due fottevano. E più i due fottevano, più quell’odore si faceva invadente. Una mattina, Giada si svegliò in un letto di sangue. Di fatti, avendo rinunciato a tutte le sue mutandine, fu costretta a macchiarsi delle proprie mestruazioni. E mentre si puliva le gambe dal sangue, venne raggiunta in bagno da Michele. Lui, che si era svegliato con una grossa erezione, di quelle che fanno male, le disse che voleva possederla lo stesso. Ma da dietro.
Michele: nudo, in ginocchio verso il culo aperto della sorella, il pisello duro in una mano.
Giada: nuda, distesa sul pavimento col culo al vento – una manciata di carta igienica nella bocca spalancata – in attesa del piacere.
Lui afferrò la ragazza per un fianco – con una mano si strofinava il pisello in uno sputo.
Giada morse d’istinto la carta igienica. Si sentì trafitta tra le viscere, in un’estasi di dolore. E continuarono così, lui a spingere in lei e lei a soffrire di piacere. Giada continuava a perdere sangue, e il rosso delle sue mestruazioni si mescolò al giallo dell’urina. Lo sguardo catapultato verso il cielo, il caldo del sangue sul freddo delle piastrelle. Michele prese a spingere forte, con veemenza. Teneva il culo di lei aperto con entrambe le mani, e con la curiosità del sadico spingeva sempre più forte per andare ancora più a fondo, solo per scoprire fin dove potesse arrivare. Le urla di Giada assunsero un’altra gravità. Non le piaceva questo nuovo modo di fare l’amore, in mezzo alla luce dura e fredda di un giorno di tempesta: perché non poteva essere come le altre volte? Specialmente oggi, che la sua figa era un fuoco e il suo amore era tanto. Le piastrelle bianche e fredde non la eccitavano più. Erano quelle di un obitorio.
Una vampata maleodorante invase la stanza. Era quell’odore dannato, che penetrava le narici della coppia con violenza, tanto da capovolgere il loro piacere in una nausea profonda. Giada sputò la palla di carta igienica, che era zuppa di bava. I suoi occhi presero a lacrimare. Urlò Basta! Basta, ti prego! Sbatteva una mano sulle piastrelle, disperata. Ma lui, disgustato almeno quanto lei, non riusciva a fermarsi, e continuò a incularla in mezzo a quella puzza. Lo turbavano diverse cose: la vista del sangue, quell’odore atroce, e una sensazione strana, indefinibile, che gli attraversava il corpo e lo scuoteva nel profondo. Era scosso, sì. Ma non poteva che fottere.
Le urla della ragazza furono avvertite persino dalla Madre e dalla sua badante. La prima lanciò uno sguardo spaventato verso la porta e sembrò per un attimo risvegliarsi dal suo stato catatonico. La seconda, invece, che aveva colto i due ragazzi nelle loro oscenità più di una volta in sala da pranzo, fece finta di niente. Come le altre volte. Sentito il primo urlo le venne solo da strizzare gli occhi – le tornò alla mente l’immagine strisciante di quei due giovani stretti tra gli avanzi di cibo – e poi riprese a imboccare quel corpo supino con un cucchiaio colmo di zuppa. E così la Madre riprese a mandare giù la zuppa. Nella televisione ai piedi del letto la replica di una vecchia telenovela.
Michele continuava a spingere, più veloce, sempre più veloce.
Il cazzo gli scivolò fuori.
E l’immagine del suo pisello sporco di merda e sangue violentò il suo sguardo.
La ragazza approfittò del momento per trascinarsi lontana dal fratello. D’improvviso si sentiva sporca e violata. Si rannicchiò in un angolo del bagno, nascosta dietro al cesso. Guardava il fratello con occhi di terrore, le lacrime fino ai seni. Sembrava che quel tanfo infame avesse inquinato per sempre il loro amore.
Che ne sarebbe stato, adesso, di loro?
Michele alzò lo sguardo verso la piccola Giada e disse Ho capito da dove viene questa puzza.
***
Nudi e sporchi, ora i due giovani si trovavano in sala da pranzo. Michele disse alla sorella Aiutami, e insieme, con grande sforzo, spinsero via il tavolo in mogano. Il tavolo, dalla base importante, aveva sempre coperto una maniglia incastrata nel pavimento, di cui Giada ignorava l’esistenza. Michele afferrò quella maniglia e una parte del parquet si sollevò: era l’accesso a un mondo sotterraneo. Davanti a loro si presentò una scalinata. E il buio.
I due vennero travolti da un’ondata di fetore. Tenevano il naso premuto sul braccio, perché le mani di entrambi erano troppo sudice per portarsele al viso. Scesero nell’oscurità, Michele davanti e Giada al seguito. I gradini di legno marcio scricchiolavano sotto i loro piedi. Entrambi avvertirono un suono strisciante. Le ragnatele sul volto, la polvere a riempire i polmoni. Giada continuava a ripetere Ho paura, Michele. E Michele continuava a zittirla. Finiti gli scalini, si ritrovarono uno accanto all’altra, nudi nel buio che fa paura.
Michele avvicinò la mano a una cordicella penzolante. Una lampadina illuminò la scena. E la scena era la peggiore.
Il Padre sedeva su una sedia, in avanzato stato di decomposizione. Le larve brulicanti nei buchi degli occhi, il cervello ridotto a una pappa, una mano già divorata dagli insetti e dal tempo. Uno spettacolo osceno. Un padre distrutto. Un padre presente.
Giada svenne di colpo e con la testa fracassò l’ultimo scalino. Michele la guardava dall’alto: la sagoma di sua sorella nuda, insanguinata, appena tratteggiata dagli echi di luce di una lampadina dondolante. Si accorse subito di avere una grossa erezione… e prese a piangere, confuso, spaventato, ormai orfano di padre quanto di lucidità. Così, in mezzo a quella puzza di morte, sua sorella, macchiata di piscio, sangue e merda, si macchiò anche di lacrime. Per sempre.
**********
Era tardi. Michele passò davanti la porta del bagno e sentì dei singhiozzi.
Ma stai piangendo?
…
Giada?
…
La porta si aprì di poco. Michele entrò nel bagno e vide sua sorella in piedi, la testa bassa, le tette nude, bagnate di lacrime. Indossava una maglia bianca strappata in più punti. La piccola lampadina a incandescenza sopra lo specchio la illuminava di lato, con dolcezza. La luce della luna, invece, metteva in risalto i suoi contorni – i capelli spettinati, gli strappi sulla maglia. Michele provò a dire qualcosa ma non gli uscirono le parole.
Non mi chiedere nulla…
Va bene.
Ho freddo – e prese a piangere più forte.
Michele afferrò un grosso asciugamano e ci avvolse sua sorella. Lei schiacciò la faccia nel petto di lui. Tremava.
Ti porto a letto, dai.
No…
Giada…
Non mi lasciare – una lacrima le cadeva dal capezzolo.
Non ti lascio – trovò il coraggio di abbracciare la sorella.
Rimasero a lungo senza muoversi, in una notte strana, stretti nell’ignoto. Dormirono insieme, nel letto di lui. Quella notte Giada compiva dodici anni.
***
L’amore è una cosa oscena.
***
Dire cose scontate senza che lo siano davvero, o forse dirle proprio perché lo sono. O, forse ancora, dirle sapendo di star utilizzando delle immagini che non lo sono. La casa oscena è questo: immagini e dettagli che non ne costituiscono solo le sfumature, ma le fondamenta stesse; una confusione di visioni che si fa carico di confondere anche il resto, di infrangere i confini tra l’osceno e il sublime, tra l’amore e l’orrore, tra il desiderio e lo schifo, e farli diventare così l’osceno del sublime (o il sublime dell’osceno), l’amore dell’orrore (o l’orrore dell’amore), il desiderio dello schifo (o lo schifo del desiderio).