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Te­sto di
Lo­ren­zo Del Cor­so

Co­per­ti­na di
An­drei Co­stan­ti­no Cu­ciuc

Edi­ting di
Odis­sea Di Ber­nar­do

Ca­te­go­ria
Nar­ra­zio­ni rot­te

Da­ta di pub­bli­ca­zio­ne
25 Ot­to­bre 2023

Le pesche

La pun­ta di un di­to che pre­me sul­la buc­cia di una pe­sca ma­tu­ra, il di­to che pe­ne­tra e sca­va la pol­pa; il du­ro dell’unghia sul noc­cio­lo du­ro.

Ire­ne ha un bri­vi­do. Gli as­si del­le gam­be oscil­la­no e una leg­ge­ra pe­san­tez­za le pre­me sul­la fron­te.

Si reg­ge al car­rel­lo.

Si guar­da in­tor­no, ol­tre le du­ne di li­mo­ni, pe­sche, lat­tu­ghe, ver­ze, no­ci. Tut­ti quei frut­ti, quei co­lo­ri vi­vi; ep­pu­re al tem­po stes­so ste­ri­li, mor­ti cu­mu­li di ca­da­ve­ri.

Nes­su­no l’ha vi­sta, nes­su­no la ve­de. Non ve­de nes­su­no.

Nel par­cheg­gio, al­lo smog aper­to, si sen­te ria­ve­re. L’odore di ben­zi­na la ria­ni­ma.

“Ho fa­me”.

Un uo­mo dal­la pel­le co­lor ta­bac­co le por­ge la ma­no de­stra a cop­pet­ta, la si­ni­stra nel­la ta­sca del­la giac­ca di pel­le.

“Non ho nien­te”

“Quel­lo, per fa­vo­re”, ac­cen­na con il di­to al car­rel­lo.

“Que­sto?” di­ce lei in­di­can­do il trion­fo di mer­ce nel­la boc­ca del pel­li­ca­no di me­tal­lo. Ma lui chiu­de tre di­ta del­la ma­no a cop­pet­ta e le mo­stra so­lo l’unghia dell’indice: “Un eu­ro, per fa­vo­re”.

A que­sto pun­to Ire­ne si sen­te spa­ven­ta­ta. Lui non la mi­nac­cia: ria­pre le di­ta co­me pe­ta­li di una pian­ta car­ni­vo­ra, il piat­to di una bi­lan­cia in at­te­sa del suo gra­ve.

“Mi di­spia­ce ma non ho nien­te”

“Hai quel­lo, per pia­ce­re”

“Mi di­spia­ce”, lei si mo­stra in­daf­fa­ra­ta in at­te­sa che lui se ne va­da.

“Un eu­ro per man­gia­re”

“Con un eu­ro non ci man­gi nul­la”

“Per fa­vo­re, ho fa­me”.

Ire­ne è spa­zien­ti­ta. L’uomo con­ti­nua a men­di­ca­re.

“Se dav­ve­ro hai fa­me…” lui la guar­da in si­len­zio, aspet­ta “Ti do qual­co­sa da man­gia­re. Va be­ne?”

“Ma l’euro…”

“No, con un eu­ro non ci man­gi, né tu né la tua fa­mi­glia. Guar­da”, ru­fo­la fra le bu­ste “Guar­da: sei pe­sche no­ci, due eu­ro e di­cias­set­te. Il dop­pio di quel­lo che vo­le­vi”.

Lui ha l’odio ne­gli oc­chi.

“Se dav­ve­ro hai fa­me de­vi ac­cet­ta­re”.

Fa in­die­treg­gia­re la ma­no a cop­pet­ta e la in­fi­la nell’altra ta­sca del­la giac­ca. “A mia fi­glia le pe­sche non piac­cio­no”.

“Mo­ri­te di fa­me e non vo­le­te man­gia­re la frut­ta gra­tis?” gli dà il sac­chet­to con le pe­sche. Lui len­ta­men­te ti­ra fuo­ri la ma­no. Co­me se le di­ta fos­se­ro una pin­za pren­de il sac­chet­to, rin­gra­zia, si al­lon­ta­na, spa­ri­sce die­tro le au­to.

Ap­pog­gia l’ultima bu­sta. Chiu­de il bau­le. Chiu­de l’auto. Spin­ge il car­rel­lo fi­no al­la ri­mes­sa. Il suo car­rel­lo e gli al­tri sfer­ra­glia­no, co­me se si ri­co­no­sces­se­ro, co­me stes­se­ro co­mu­ni­can­do. In­se­ri­ta la ca­te­ni­na estrae l’euro. L’uomo co­lor ta­bac­co è die­tro di lei. Ire­ne si vol­ta. Lui le sbar­ra l’uscita.

“Dam­mi l’euro, se non ti di­spia­ce” la ma­no de­stra sem­pre avan­ti, la boc­ca leg­ger­men­te soc­chiu­sa. Una del­le due ali di baf­fet­ti si sol­le­va.

Ire­ne ve­de che l’altra ma­no è fuo­ri del­la ta­sca. In quel­la ma­no ha un col­tel­lo con la la­ma a scom­par­sa. Si chie­de se lo aves­se an­che pri­ma o se fos­se an­da­to a pren­der­lo. Il par­cheg­gio è gre­mi­to di au­to e vuo­to di per­so­ne, un ci­mi­te­ro. Lei a tu per tu con l’uomo con il col­tel­lo, tal­men­te so­la da non per­ce­pi­re nean­che la pre­sen­za del­la mi­nac­cia.

“Ti ho già da­to le pe­sche”

“Ma ho bi­so­gno di sol­di. Ci so­no an­che le bol­let­te”

“An­che per me è du­ra pa­ga­re le bol­let­te”

“Ti pre­go, per fa­vo­re. Mia mo­glie non la­vo­ra”

“Lo so lo so”

“Mia fi­glia… de­vo pren­der­mi cu­ra di lo­ro o no?”

“Non de­vi pren­der­ti cu­ra di nes­su­no”

“Per fa­vo­re, fal­lo per lo­ro se non vuoi far­lo per me”

“An­che se ti des­si un eu­ro…”

“Con i sol­di pos­so­no com­prar­si del­le co­se”

“Co­sa?”

“Da man­gia­re”.

C’è ca­sca­to: “Hai le pe­sche”.

Un au­to­bus che ri­par­te do­po la so­sta al se­ma­fo­ro fa tre­ma­re la ter­ra.

“Pos­so pas­sa­re?”, lui al­lo­ra le fa spa­zio e la sa­lu­ta con un cen­no.

Fi­nal­men­te Ire­ne chiu­de lo spor­tel­lo. Si met­te la cin­tu­ra. La ra­dio spen­ta. In­se­ri­sce la re­tro­mar­cia e len­ta­men­te esce dal par­cheg­gio. Già si è for­ma­ta die­tro di lei una fi­la di au­to fan­ta­sma pron­te a riem­pi­re lo spa­zio vuo­to. L’uomo di ta­bac­co è di nuo­vo ac­can­to a lei, di fron­te al fi­ne­stri­no. Le fa cen­no di fer­mar­si. Nel­la ma­no si­ni­stra il col­tel­lo ri­chiu­so fra in­di­ce e pol­li­ce. Lei ca­la il ve­tro.

“Dam­mi al­me­no un pas­sag­gio”.

È co­sì sfron­ta­to, co­sì ma­le­du­ca­to: “Sa­li”.

Men­tre scor­ro­no co­me den­tro va­si san­gui­gni re­sta­no in si­len­zio. Ad un cer­to pun­to l’uomo ta­bac­co apre il sac­chet­to del­le pe­sche. Ini­zia a man­gia­re. Sca­va la pol­pa con i den­ti. Fra la lin­gua, i den­ti e il pa­la­to si for­ma una ri­sac­ca che ha il suo­no di pic­co­le on­de in un bu­co fra gli sco­gli; sul­la bar­bet­ta co­la un suc­co dol­ce di bol­le.

Fi­ni­ta la pol­pa ro­de i lo­bi del noc­cio­lo. Lo met­te in boc­ca e ini­zia a suc­chiar­lo co­me una ca­ra­mel­la. Lo suc­chia. Lo suc­chia. Poi apre la boc­ca e se ne pri­va. Lo la­scia nel sac­chet­to. Pren­de un’altra pe­sca. Ri­co­min­cia.

Una do­po l’altra, per sei pe­sche; co­me una sal­mo­dia.

Quan­do ha fi­ni­to si lec­ca le di­ta del­la ma­no; poi si fer­ma.

Lei lo mi­nac­cia: “I noc­cio­li te li por­ti via”

“No, i noc­cio­li so­no il suo re­sto”.

Co­me le ha in­di­ca­to, Ire­ne lo por­ta in via­le Diaz. Du­ran­te il lun­go per­cor­so al­be­ra­to scor­ro­no pa­laz­zi d’epoca, trion­fan­ti, mae­sto­si, ri­pu­gnan­ti nel­la lo­ro im­po­nen­za.

“Ac­co­sta lì, a quel­la fac­cia­ta ro­sa”. Le fi­ne­stre so­no fre­gia­te di stuc­chi. La fac­cia­ta è il­lu­mi­na­ta dal bas­so. Po­treb­be qua­si es­se­re un pa­laz­zo go­ver­na­ti­vo.

Si fer­ma­no.

“È stra­no che abi­ti qui e non ab­bia sol­di”

“È ve­ro: tut­to ha un prez­zo”, nel dir­lo le sor­ri­de; si ve­do­no le fi­bre gial­le del­la pol­pa del­le pe­sche fra un den­te e l’altro.

“Tran­ne que­sto pas­sag­gio” gli ri­spon­de lei.

Lui ti­ra fuo­ri il col­tel­lo dal­la ta­sca: “Non hai pau­ra di me?”.

Al­la fi­ne la­scia il col­tel­lo sot­to il fre­no a ma­no.

“È il mio re­sto?” chie­de lei.

Lui al­za di nuo­vo l’angolo del­la boc­ca. La sa­lu­ta. Scen­de.

Lo os­ser­va at­tra­ver­sa­re il mar­cia­pie­de mo­nu­men­ta­le, apri­re la por­ti­ci­na den­tro l’enorme por­to­ne. Fis­sa lo sguar­do sul bu­co del­la ser­ra­tu­ra, pas­sag­gio ver­so i se­gre­ti del mon­do di quell’uomo. La por­ti­ci­na si chiu­de, lo sguar­do di Ire­ne cer­ca di pe­ne­tra­re la ser­ra­tu­ra, ma è so­lo il bu­co sul­la pe­sca; il noc­cio­lo al­la de­ri­va. Pren­de uno dei noc­cio­li di pe­sca ab­ban­do­na­ti sot­to il se­di­le. Si spor­ca le di­ta di pol­pa e sa­li­va, il frut­to non ha più car­ne. Os­ser­va il se­me iner­te. Al­za di nuo­vo lo sguar­do, ma ora il por­to­ne si è re­strin­to, è di­ven­ta­to la por­ta di una vil­let­ta in pe­ri­fe­ria, la sua por­ta di ca­sa quan­do era ra­gaz­za. A quan­ti ha chiu­so in fac­cia quel­la por­ta, quan­ti l’hanno aspet­ta­ta pen­san­do di far­le una ga­lan­te­ria, quan­ti ha ri­man­da­to in­die­tro a tar­da not­te sen­za nem­me­no per­met­ter­gli un ba­cio.

In quel mo­men­to si ve­de usci­re ven­ten­ne dal por­to­ne del pa­laz­zo di via­le Diaz.

Il suo ri­cor­do le sor­ri­de men­tre le vie­ne in­con­tro. For­se l’ha scam­bia­ta per qual­cu­no che la vie­ne a pren­de­re per por­tar­la a ce­na fuo­ri. For­se l’ha scam­bia­ta pro­prio con lui, pro­prio con Pier.

Il suo ri­cor­do sa­le in mac­chi­na. È bel­la, cu­ra­ta, si è mes­sa quel pro­fu­mo di ro­sa, vuol di­re che ha in­ten­zio­ne di fa­re l’amore.

Il ri­cor­do le chie­de: “Do­ve mi por­ti di bel­lo?”.

E lei la por­ta a ca­sa.

Ti­ra­no giù la spe­sa. Il ri­cor­do non smet­te di sor­ri­de­re. È in­ge­nua. Tut­to le sem­bra fre­sco e te­ne­ra­men­te vi­vo, co­sì si ri­flet­te l’indecenza gior­na­lie­ra nei suoi oc­chi. “È qui che vi­vre­mo?” chie­de con un’intonazione di spe­ran­za.

Gre­ta non è in ca­sa, è an­co­ra a nuo­to.

Pier sta sti­ran­do in sa­lot­to men­tre guar­da un film. Gli di­co­no che vo­glio­no fa­re l’amore. In real­tà è il ri­cor­do che vuo­le l’amore; Ire­ne la la­scia fa­re.

Pier all’inizio è fred­do, stan­co co­me chi non si con­ce­de al­lo stu­po­re. Poi lei gli to­glie la fel­pa e ini­zia a ba­ciar­lo sul col­lo, sul pet­to, sui ca­pez­zo­li. Lui al­lo­ra le pren­de, en­tram­be, sul di­va­no.

Lo­ro si gi­ra­no, lo fan­no se­de­re e si met­to­no so­pra di lui.

Gli oc­chi mar­ro­ne chia­ro di lui. Ire­ne li fis­sa. Nei lun­ghi se­con­di dell’orgasmo li chiu­de. Li ria­pre. E gli oc­chi non ci so­no più. Il cra­nio di suo ma­ri­to è sen­za oc­chi, nel ven­tre dell’onda del pia­ce­re. I suoi oc­chi so­no due pe­sche con­sa­pe­vo­li, per­ché ro­vi­na­te, lo­go­ra­te, pe­ne­tra­te.

Lei sco­pre di es­se­re nu­da. Il ri­cor­do l’ha ab­ban­do­na­ta, l’ha raf­fred­da­ta. “Va­do a pren­de­re Gre­ta” con que­ste pa­ro­le fug­ge da Pier. Lui è mez­zo ad­dor­men­ta­to, non la ve­de usci­re, non la sa­lu­ta, con la te­sta sbar­ra­ta e vol­ta al ple­ni­lu­nio del sof­fit­to.

Esce di ca­sa, apre lo spor­tel­lo dell’auto.

Il ri­cor­do l’aspetta al fian­co del con­du­cen­te, con il bron­cio, of­fe­sa.

“Per­ché te ne sei an­da­ta?”

“Per­ché ab­bia­mo fat­to l’amore con lui? Io non so­no una fa­ci­le”

“Lui è no­stro ma­ri­to”

“È tuo ma­ri­to. Io non an­drò mai con uno co­me lui, io non val­go co­sì po­co”

“Tu non va­li…”

“Io ho un prez­zo. Lui non mi va­le, non mi cor­ri­spon­de”.

Ire­ne si sten­de sul se­di­le. Al­za la te­sta in cer­ca del­le stel­le, ma c’è so­lo il tet­tuc­cio buio, lo stret­to cie­lo an­gu­sto dell’esistere.

La ma­no de­stra cor­re al fre­no a ma­no co­me per reg­ger­si, per fer­ma­re que­sta pie­na di im­ma­gi­ni che la tra­vol­ge. Ab­bas­sa la ma­no e in­con­tra il col­tel­lo.

Nel mo­men­to in cui strin­ge il col­tel­lo nel­le ma­ni, un ven­to di ca­lo­re e lu­ce e os­si­ge­no la ria­ni­ma. Estrae la la­ma e con odio chi­rur­gi­co in­fi­la la pun­ta nel­la fron­te del ri­cor­do. Con la ma­no si­ni­stra le tap­pa la boc­ca men­tre si di­me­na. Sca­va nel cer­vel­lo del ri­cor­do co­me per to­glie­re un pun­to toc­co, il ver­me che le ro­de la pol­pa; la uc­ci­de per pu­lir­la.

Il ri­cor­do per­de fia­to, per­de lu­ce, per­de co­lo­re. Sul vol­to del ri­cor­do uc­ci­so si sciol­go­no i li­nea­men­ti, con­for­mi ora al vi­so di Gre­ta. La Gre­ta ven­ten­ne, la Gre­ta del fu­tu­ro.

Ire­ne gui­da fi­no al­la pi­sci­na al­la lu­ce dei lam­pio­ni. In un croc­chio di ra­gaz­ze in tu­ta scu­ra spun­ta Gre­ta, col bor­so­ne del­la squa­dra sot­to il brac­cio, le guan­ce ar­ros­sa­te dal clo­ro.

La fi­glia sa­le in mac­chi­na. Le sor­ri­de.

***