Poesie di
Andrea De Luca Italia
Video di
Francesco Galbiati
Editing di
Andrea Ferraiuolo
Categoria
Corto-circuiti
Narrazioni rotte
Data di pubblicazione
17 Gennaio 2024
Egosione
bismillah
in polvere di Lego sniffata dal vento
mi dichiaro
contro natura l’atomo dell’edificare
senza senso sgretolato
granuloso gracidare di naso
infine starnutito feroce ancora
vivo? evaso?
detrito di detrito
sopravvivo se lego
sopravvivo se l’ego
si sloga
dolce frattura dell’osso IOide
in cenere
rendo grazie per la trama e il tessuto
in tenere
spole mi navigo da parte a parte
in ordine
post partum
lasciami silenzio tra gli scarti
bagno di sangue
che non muta in reliquia
tento – l’alieno chiasso
la nuova chimica – ancora per un passo
differire
(la vita esige e bracca)
spina su spina su spina
spacca le tempie
corona di perfezione
non richiesta
crocifesso
i chiodi che chiavano insieme
il mondo
di fatica lenti
divelti nel sinistro fracasso
dal prolasso
degli eventi
rovinosi rotolando in rovinate rotte
non fanno danni non hanno argomenti
o freni
a saggiare la ruggine
e gli anni
offri loro una casa di palmi schiusi
una reggia di stupide stimmate
un nuovo senso
saldo di fratture
la mairie en feu
l’incendio ha una voce ti bussa alle porte dell’utero
crocevia di vite altrui
dice ospita
dice fai spazio erigiti
focolare
abbraccio vorace del rogo
bisbiglio di brace
un corpo è ancora un corpo se tace e arde
d’assenza?
lanthimos
oggi non sono che l’orsa
la fine della corsa l’asfittica radura
non sono che un conato
sapido di paura
materna
e viscere riverse
per gli aruspici dell’eterna nonchalance
crampi elisi
mummificato l’ambire
in pratiche teche
ermetiche
non restano che stolide dita
mancate eretiche
educate a lambire dolorosi
ignoti (la vita
nell’epoca della sua riproducibilità tecnicamente)
deludersi
è la chiusura
la fine delle domande
l’agonia del disfare
trame maiuscole nel buio della cameretta
minuscole negli sbirci assassini
della fretta
“Ed io non voglio più essere io”, scriveva Gozzano nel celebre La signorina Felicita, ovvero la Felicità. L’abbandono delle vesti dell’io – dell’osso “Ioide” – è un topos assai caro alla poesia, a partire in particolar modo dal Romanticismo, passando per le Avanguardie storiche e poi il secondo Novecento, sino ad oggi. Col subentro, poi, della psicanalisi, ci si è dilettati, rintronati, a coinvolgere un io più analizzato, un io meno privato, scandagliato e, se morto, dissepolto. La cura e la convinzione con cui ci si è rivolti – e ancora ci si rivolge – alla rappresentazione di un io aperto, seppur frantumato, sotto la luce chiara e diligente dell’analisi, ha privato delle volte la poesia del suo mistero. Le poesie di Andrea De Luca Italia, lungi da questa attenzione così scientifica, si preoccupano non di far emergere l’io, ma al contrario le sue fratture, la sua erosione. Quella operata dal poeta è piuttosto una sepoltura dell’io, in nome delle sue frammentazioni.
In questa inumazione arde un linguaggio – seppellito il contenuto – dove il senso si perde, “sgretolato” fra i detriti e le ceneri, per cui è necessario in un certo senso riedificarlo come l’autore ha da riedificare se stesso. Elemento da riedificare è la causa di un tale scioglimento; ma la causa è per tutti e in tutti: cioè, va bene che possa essere qualsiasi cosa come anche un bel niente, una sciocchezza. Va da sé che i modi in cui l’io viene demolito sono segni storici e biografici piuttosto rilevanti (anche se non pseudo-psicanalitici): la “dolce frattura dell’osso”, il silenzio e le esigenze, i chiodi e gli anni, il fuoco e gli abbracci, la paura, la delusione. Ne deriva a suo modo un quadro a pezzi, ma che non vuole essere ricucito; vuole che il silenzio presente ad ogni vuoto che i frammenti creano l’un con l’altro, si faccia sempre più reboante. Il suono, in queste poesie, è importante. Non è sterile svago masturbatorio, gioco di parole imbecille e rintronante. La ricerca dell’allitterazione e reiterazione è un’evocazione dell’eco e della differita. Un ritardo costante che dilata il tempo (e in qualche modo anche lo spazio); un ritardo che richiama altresì l’inettitudine del poeta stesso, un’autoinvocazione fatta per significanti, prima che per significati. Ma poi di suoni di fatto non ce n’è, un’eterna quiete domina i componimenti.
Quiete che domina altrettanto le opere filmiche di Francesco Galbiati. Il tacito intreccio con le poesie dà nuovamente voce a quella frammentarietà che non è solo contenuta fra le parole, ma anche fra le immagini in movimento. Quattro momenti: immagini-ritratto, tutt’altro che prismatiche, come le abbiamo viste in Bagliori di casa, che evocano se vogliamo le prime sperimentazioni col pixel del cinema sperimentale degli anni ‘80-’90. Così com’è nelle poesie di De Luca Italia, nelle riprese di Galbiati si assiste a ritratti già disossati e non nella loro fase erosiva; manca tutto un apparato scenografico, illuminotecnico: siamo nella pura e semplice astrazione digitale. Delle volte sembra di vedere delle onde sonore, una strada, delle altre è più facile ritrovare degli alberi bloccati in un bug.
Insomma, Egosione è un intreccio ego-centrico tra due o forse infiniti io. Ritratti appena accennati, leggeri, sofisticati, attenti, mai gelidamente analitici. Ma questo, formalmente, rimane anche un intreccio fra due media: un dialogo sia formale che concettuale che allontana questa pubblicazione dall’idea di autorialità egomaniaca. Ogni opera, dialogando, può e si lascia ascoltare dall’altra, il tutto in un breve circuito silenzioso.