Testi di
Gahel Zesi
Copertina di
Gahel Zesi
Editing di
Jacopo Abballe
Categoria
Passaggi viscerali
Data di pubblicazione
15 Settembre 2024
Mi sembra di sciogliermi
Zucchero scaduto
Se mi taglio, il mio sangue sarà di marmellata
con tutto il miele che ho trangugiato
con il culo ingordo e le membra calde
avresti qualcosa di buono
da stringere tra le braccia, invece
mi resta sempre questa schiena ossuta
con le scapole di corteccia.
Mi abbevero di birra dalle tue labbra ebbre
stordirmi con la saliva fermentata
per sentirmi formicolare i piedi
per quanto tempo son rimasta distesa
un tessuto stracciato di sangue
una lacerazione aperta nella pancia
la tintura di iodio sparsa sul ventre
garze voluminose, un letto sfasciato,
lo spazzolino da denti sciolto al sole
il dentifricio come schiuma isterica
la fiamma di una candela sulla punta del naso.
Mi sembra di sciogliermi mentre
vai a fare la spesa; urlo alla porta
ma poi quando torni, mi annoi.
Se non mi importasse di nulla
ti dimostrerei il mio amore, ma
non riesco a non vergognarmi
quando preparo le torte al cioccolato
e ti bacio i piedi.
Ormai la parola famiglia mi esplode in petto
sarebbe stato bello lasciarmi esplodere al pranzo di Natale
ma se la pronunci tu per me
mi si stringono le ovaie
e mi viene da piangere. Se solo fossi
una donna diversa
costruirei una famiglia
con il tuo sperma.
Ho sognato (1)
Ho sognato di essere distesa sul prato
e non avevo paura degli insetti
sembrava un tappeto fresco
non pensavo alla terra bagnata
che mi impregnava la schiena.
Ho sognato di essere inchiodata al prato
ero tutta un nervo, le mie falangi ritorte
un’incudine sulla testa mi teneva ferma
le pupille mi vorticavano intorno
e il sole del mattino mi baciava il ventre.
Di cosa sono fatti i maschietti?
di grilli, cavallette e lumachine,
ti sei tagliata con una spina di rosa. Terrore.
Le zampette potrebbero uscire dal tuo braccio
infestarmi il prato, infestarmi i capelli,
le tue ciglia mi accarezzano come
zampe di ragno. Mi ricordo di quando
infilavo la testa nelle ortensie per fuggire.
Ho sognato (2)
Ho sognato di sposarmi
avvolta in un vestito tutto trine e fiocchi
e i parenti insetto nei terrari delle navate
ridevano del fango che mi portavo dietro le scarpe,
un velo nuziale sfrangiato con due buchi per gli occhi
fiori di sangue, un collare di perle, un bel guinzaglio per il cane
mi adornano fin su il corpetto, non mi hanno chiesto
se lo voglio, ho inclinato la testa e mi hai
baciata sul naso, abbiamo ballato
fino allo sfinimento come bambini
sotto una pioggia di riso ammuffito,
la torta di panna profumata al limone
e niente più cicatrici sul collo.
Abbiamo salutato mio padre
e poi è morto.
Ho sognato di essere una moglie
di essere riempita e tornare con la pancia vuota
dopo non volevo più far l’amore
mi bastava questo nuovo pupazzo
mi riempiva di gioia e finalmente
tutto era semplice, stupido e vuoto
mi avevi tolto tutto e non dovevo più pensare
tornavi a casa e succhiavi il mio latte
ed era così facile non dover più essere qualcuno.
Mi sono tagliata le vene nella vasca da bagno
con la radio accesa, ti sei svegliato che
tuo figlio piangeva.
Ho sognato di essere uomo
finalmente ero libero dall’eterna infezione,
tornavo a casa
ti picchiavo, smettevi di respirare
i polmoni pieni di sangue
come un bignè alla crema:
avevo già un’amante.
Suicidio e lutto
Ho tagliato la mia veste per trovare una trina di carne cruda,
stiravo ossessivamente le lenzuola per togliere quella
piega inguinale che increspava il tessuto con il mio passaggio.
Si è aperto tutto, slabbrandosi come un frutto maturo
si è aperto e si è richiuso.
Mi hanno cucita sul lettino, quello lungo e stretto come un fasciatoio
disegnavano arabeschi di sangue che nutrivano carta assorbente
coi nervi scoperti amavo di nuovo il mare,
fuori pioveva sabbia e il pavimento di cemento si screpolava
come un capezzolo devastato dalla suzione,
stiamo tornando indietro, mi stanno ricucendo sul lettino,
racconto delle storie a un pubblico di adulti
mentre un bambino coi soli incisivi piange disperato,
(ai bambini non piace sentire puzza di morte)
raccontavo di filari di papaveri tra le ferrovie che tingevano di perle sanguigne il prato e di un vecchio uomo che si sarebbe chinato per coglierle e portarle fino al settimo piano.
Il corredo funebre
Nel feretro della mia bara hanno allestito
una cristalliera rotta
un diadema lucente
di rasoi traslucidi
scomposti e decorati,
è tutto così asettico
profuma di disinfettante come il corridoio di un ospedale
entra nella mia gola, si mescola con gli aghi
nel mio sangue intinti, come pennelli in acqua colorata
come quando andavo a trovare mia madre distesa sul letto
bionda e bianca, bella e addormentata
ma con gli occhi aperti di chi ha visto un corpo dilaniato,
ho visto la pelle lacerata
e ho smesso di tagliare
ho visto la pelle lacerata
e ho smesso di tagliare
ho visto la pelle lacerata e ho smesso di tagliare
ho tagliato di nuovo e ho visto la pelle lacerata
ho visto la pelle lacerata e ho tagliato di nuovo,
un fodero pieno di sangue, il feretro della bara
tutto tagli, una striscia di stoffa mi copre.
Paccottiglia.
Riunione di famiglia in giardino
Il centrotavola a uncinetto per le cene di primavera in veranda
tra i filari di rose e le mosche vibranti sulle torte
la nebbia rosa di vino e le briciole che nutrono il cane
tra le mie gambe lunghe e secche e i tacchi rossi,
la tavola imbandita in mogano rosicchiata dalle tarme
forme spigolose edulcorate come una svastica di miele
seguita da una scia di formiche in fila come soldati.
Tutti si divertono, stanno ridendo, stanno scherzando
e intanto le mogli conficcano le unghie dei piedi
nella carne dei mariti quando dicono qualcosa di sconveniente
(sulla cucina, sui bambini)
ma nessuno vede gli insetti, nessuno li vede
sembrano tutti ciechi mentre azzannano le bistecche
con le ali di mosche, il mio stomaco si ribalta
comincio a tremare, sulla torta
uno sciame di zanzare.
Figlia di Dio
Dì soltanto una parola e io sarò salvata
Dio di questa parola, dimmi una parola
non riesco a sentirla, forse sussurri dietro le tende
papà mi ha abbandonata, non farlo anche tu
non mi sono mai sentita abbastanza adeguata
per il tuo pasto
per il tuo pasto
per il tuo pasto, GNAM
mi ricopri di baci, vorrei essere divorata
non sentire più niente, avere una pelle diafana
e sfilare lo scarabocchio ricamato sul dorso
del mio cervello, Dio me lo sfili tu
o me lo sfilo io?
Gesù mi sono ritrovata a pranzo con Hitler
che mi spezzava il pane e mi faceva tutta la liturgia
così, e mi ordinava di sorridere, allora
mi sono tagliata le labbra con le forbicine
ho aperto le pieghe che c’erano già
e mi sono ordinata di non sorridere più
quando capitava, pungevano tutte come
pungiglioni dentro di me
la mia pelle si faceva tutte spine come Santa Rita
e accarezzavo i volti di qualche ragazzo che
volevo castrare, ahimè ma quanto ero castrata io?
Gesù una preghiera, i miei ovuli sono come
i grani del rosario, ce li ho dentro, tu mi ami,
avevo bisogno di un sacramento che mi facesse
sentire degna, degna, degna
cosa mi rende degna
percorro l’altare con lo strascico
o mi infilo in una bara piena di fiori bianchi
voglio fare una promessa a qualcuno che non dice parole
dì solo una parola, e mi hanno detto
Puttana
tu dimmi qualcosa che come un punto di sutura
mi guarisca.
Sangue e sapone
Pace e quiete, pace e quiete
morbidi come cuscini, petali freschi
polline nelle narici e starnutisco, etciù.
Ecco ho rovinato tutto, il mio piccolo sogno
una bambina umiliata recita una poesia nuda
davanti all’intera scuola e gli spettatori indicano
la sua vagina, sanno bene come farla vergognare,
saliva e liquido ributtante
ti devi lavare, ti devi lavare.
La mia pelle sporca e insaponata
strati spessi profumati, li gratto forte con le unghie
finché non si creano dei solchi tra questi graffi
puoi giocarci a tris con i tuoi amici.
Mi voglio sentire pura, pura, pura
come l’intestino di un vitello da latte,
mi risalgono gli organi come un rigurgito
di stelle marine con la cancrena.
Non voglio sentirmi, non voglio ascoltarmi
e rompo lo specchio
e rompo il bicchiere
e rompo il calice
e rompo il vetro, il vetro, il vetro
mi piace rompere
mi piace rompere il cazzo
e ricucirtelo al contrario
per provare la mia stessa sensazione
di eiaculare sangue con dolore.
Rimuovo chirurgicamente le nuvole
dal tuo sguardo stralunato
insapono lo squarcio sul mio collo
la giugulare è rotta, è rotta
sangue e sapone rosa
come latte alla fragola
Gesù mi ama, nuda e umiliata.
C’è senza dubbio un rapporto molto stretto tra Surrealismo e ultraviolenza. “L’azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si è in grado di farlo, tra la folla” scriveva André Breton nel Secondo manifesto del Surrealismo (1930). Poco prima, nel 1929, il regista aragonese Luis Buñuel impugnava un rasoio per tagliare l’occhio di una donna (ma in realtà di un vitello morto) sul set di Un chien andalou. E nonostante il movimento surrealista esistesse già da alcuni anni, sarebbe stata proprio questa lacerazione ad entrare nell’immaginario collettivo come simbolo del passaggio a una surrealtà che sfugge alla normale percezione dei sensi. Un simbolo di violenza, appunto, realizzato da un regista verso il suo pubblico: un attacco a tutti gli occhi, a tutti gli sguardi. Non si chieda quindi alle poesie di Gahel Zesi di essere più levigate o meno provocatorie. L’eccesso è un’arma di provocazione che permette di accedere senza pudori a un mondo altro. Non propriamente il mondo dei sogni (o non solo), ma una realtà che è anche superamento della realtà stessa. Sempre Breton aveva messo i lettori in guardia su questo punto: “Il surrealismo v’introdurrà nella morte, che è una società segreta.” Sia chiaro: non si può ricondurre l’opera poetica di questa autrice a un movimento che si è ufficialmente concluso negli anni Sessanta del Novecento, ma si può partire da qui per rintracciare quantomeno una tradizione che rende questa poesia possibile. Si potrebbe quindi scavare ancora più a fondo, tornando ai nomi di Sade, Lautrémont, Apollinaire. Ma può bastare, fin qui, riconoscere che la violenza nella poesia, nella letteratura, nel cinema e nell’arte non è mai realmente gratuita e che è anzi, sempre, politica. I corpi insanguinati, feriti, dilaniati e ricuciti di Gahel Zesi sono espressione di un mondo onirico tormentato, di un subconscio in rivolta, di un’intimità macchiata dalla prepotenza e dall’abbandono. Leggendo queste poesie e guardando alle xilografie e alle illustrazioni realizzate altrove dalla stessa autrice, si può capire come la violenza sia, nel suo caso, semplicemente l’unica cosa, l’orizzonte definitivo del pensabile. E anche quando la violenza non è riportata graficamente sulla tela o esplicitamente nei versi, cioè sul piano del contenuto, la si può ritrovare liberata sul piano della forma, dal momento che tutto è concepito per turbare, disgustare, sconvolgere. Far soffrire nella misura in cui si è sofferto: da qui il carattere chimerico, impossibile, romantico di dedicarsi all’eccesso. La poesia si rivela sempre insufficiente di fronte alla verità della violenza quotidiana. Sono i limiti carnali del linguaggio, che solo tagliando e ferendo possiamo allargare. Lasciamo dunque che questi versi colpiscano i nostri occhi lacerati e beviamo felici un sangue che, se vogliamo, può deliziarci come marmellata.