Skip to main content

Te­sti di
Ali­ce Cer­via

Co­per­ti­na di
An­drei Co­stan­ti­no Cu­ciuc

Edi­ting di
Si­mo­ne La Pen­na

Ca­te­go­ria
Cor­to-cir­cui­ti
Nar­ra­zio­ni rot­te

Da­ta di pub­bli­ca­zio­ne
21 Di­cem­bre 2023

Qualcosa di rosso

Mi sve­glia la puz­za.

Non vie­ne dai ve­sti­ti del­la se­ra pri­ma, nean­che dai pan­ni am­muc­chia­ti ad asciu­ga­re sul ter­mo­si­fo­ne. Nel­la pe­nom­bra del­le sei di mat­ti­na ve­do un pie­de sbu­ca­re da sot­to il let­to.
Ho be­vu­to, tan­to. Ma non co­sì tan­to.

Mi af­fac­cio al bor­do del let­to, al­zo il piu­mo­ne e sbir­cio sot­to. Mi in­ve­ste una zaf­fa­ta po­ten­te.
Pe­rò non è mor­to: rus­sa.

Un vec­chio sma­gri­to, spor­co e bar­bu­to, in mu­tan­de e ca­not­tie­ra. Non pen­so a sve­gliar­lo; in­ve­ce va­do a la­var­mi e a pren­de­re qual­co­sa per il mal di te­sta. Vo­mi­to nel ces­so e mi fac­cio un caf­fè.

Quan­to tor­no in ca­me­ra il vec­chio è an­co­ra lì. Va­do a la­vo­ra­re.

 

In ascen­so­re in­con­tro i miei vi­ci­ni di ca­sa: pa­dre e fi­glio set­ten­ne. Li in­con­tro tut­te le mat­ti­ne, so­lo che sta­vol­ta, men­tre il pa­dre fis­sa il cel­lu­la­re, il bim­bet­to ap­pic­ci­ca una gom­ma da ma­sti­ca­re su uno dei pul­san­ti dell’ascensore e mi guar­da sod­di­sfat­to. Non di­co nien­te.

 

In uf­fi­cio sia­mo in po­chi, de­ci­ma­ti da in­fluen­za e tra­sfer­te pre-na­ta­li­zie. La gior­na­ta pas­sa in qual­che mo­do.

 

Al rien­tro, l’ascensore puz­za di pi­scio, una no­vi­tà. Men­tre apro la por­ta di ca­sa sen­to i vi­ci­ni li­ti­ga­re. Ca­pi­sco che il pa­dre sta rim­pro­ve­ran­do il fi­glio e la ma­dre lo di­fen­de.

 

Man­gio una fet­ta di pa­net­to­ne e mi but­to sul let­to. Il vec­chio è an­co­ra lì sot­to, dor­me. Ma si è da­to una la­va­ta. Al­me­no non puz­za. Sem­bra ab­bia an­che man­gia­to, per­ché non pa­re più sul pun­to di cre­pa­re.

 

La mat­ti­na do­po nean­che con­trol­lo, so­no in ri­tar­do. I pan­ni sul ra­dia­to­re mi fan­no sa­pe­re che so­no an­co­ra lì, ora qua­si asciut­ti, con una puz­za che mia non­na avreb­be det­to ‘di im­pan­chi­to’. Una di quel­le co­se che non pos­so di­re a nes­su­no, una pa­ro­la di pro­vin­cia che qui mi ren­de stra­nie­ra. 

 

Non pos­so pren­de­re l’ascensore per­ché qual­cu­no ha fat­to esplo­de­re la pul­san­tie­ra con un pe­tar­do. Da­van­ti a ca­sa ci so­no i Ca­ra­bi­nie­ri. I miei vi­ci­ni di ca­sa a ca­po chi­no, il fi­glio in­ve­ce guar­da me, e sor­ri­de.

 

Ho di­men­ti­ca­to la fe­sta di na­ta­le e non in­dos­so nien­te di adat­to. Ri­pen­so al­la pi­la di ve­sti­ti sul ter­mo­si­fo­ne. Ri­pen­so al pie­de che spun­ta­va da sot­to il let­to: sta­mat­ti­na l’ho in­tra­vi­sto, cal­za­to di ros­so.

 

Do­ma­ni si la­vo­ra so­lo mez­za gior­na­ta, è la vi­gi­lia. Sta­se­ra i miei col­le­ghi si fer­ma­no a be­re e a la­men­tar­si del­la tre gior­ni di pran­zi e ab­buf­fa­te in fa­mi­glia che li aspet­ta. Io mi fer­mo a be­re.

 

Rien­tro e, per la pri­ma vol­ta da quan­do abi­to in que­sto pa­laz­zo, il mio vi­ci­no di ca­sa si av­vi­ci­na con il chia­ro in­ten­to di ri­vol­ger­mi la pa­ro­la. Si scu­sa. Non ca­pi­sco.

 

Gli di­co che non im­por­ta e sal­go a pie­di. L’ascensore an­co­ra non fun­zio­na. Da­van­ti al­la mia por­ta sua mo­glie pian­ge men­tre can­cel­la con ac­qua e sa­po­ne una scrit­ta ros­sa di cui si ri­co­no­sco­no an­co­ra trop­pe let­te­re.

Non mi ser­ve gi­rar­mi per sen­ti­re il sor­ri­so di suo fi­glio al­le mie spal­le.

 

All’interno l’aria pro­fu­ma di frut­ta can­di­ta e zen­ze­ro. Non ho fa­me, ho be­vu­to trop­po. Non ho vo­glia di ri­ve­de­re i pan­ni che mi guar­da­no mi­nac­cio­si dal ter­mo­si­fo­ne. Crol­lo ad­dor­men­ta­ta sul di­va­no.

 

La vi­gi­lia di na­ta­le. Mi al­zo e l’istinto mi di­ce di non guar­da­re sot­to al let­to, di cor­re­re a ve­stir­mi. Di usci­re svel­ta, fuo­ri di lì.

 

Qual­cu­no nel­la not­te ha bru­cia­to dei sac­chi di spaz­za­tu­ra sul­le sca­le. Ne­ro, fu­mo, pla­sti­ca e li­qua­mi. I vi­ci­ni non li ve­do e non mi do­man­do do­ve sia­no, men­tre scen­do in fret­ta e a pie­di.

 

In uf­fi­cio so­no tut­ti an­co­ra im­pe­gna­ti a smal­ti­re quel­la del­la se­ra pri­ma. Non la­vo­ra­re og­gi è sdo­ga­na­to e quel­la con­ver­sa­zio­ne spic­cio­la che odio ine­vi­ta­bi­le.

 

Tor­no a ca­sa nel pri­mo po­me­rig­gio. Ar­ran­co per le sca­le an­ne­ri­te dal fu­mo. Un al­tro in­cen­dio? La por­ta dei vi­ci­ni ha per­so la sua coc­car­da e gua­da­gna­to un na­stro bian­co e ros­so da sce­na del cri­mi­ne. Una gran­de x che ne sbar­ra l’entrata.

 

En­tro in ca­me­ra e tro­vo la fi­ne­stra spa­lan­ca­ta. Un cic­cio­ne ve­sti­to di ros­so mi fis­sa sor­ri­den­do.

Gli man­ca un den­te, ma è que­stio­ne di un at­ti­mo. Si sen­te un gri­do sul pia­ne­rot­to­lo, se­gui­to da un esplo­sio­ne e dal suo­no di un ve­tro in fran­tu­mi.

Il bian­chis­si­mo sor­ri­so che mi vie­ne ri­vol­to è ora com­ple­to.