Fotografie di
Simone La Penna
Editing di
Odissea Di Bernardo
Categoria
Ombre latenti
Periferie
Data di pubblicazione
18 Febbraio 2024
Ero troppo occupato a fotografare e non ho ricordato
Il Seminatore non guarda nessuno. Il Seminatore guarda lontano, volta le spalle al tribunale. Il Seminatore ha il mento alto e gli occhi senza pupille. Il suo sguardo è perso nell’orizzonte. Il Seminatore non guarda nessuno. Nessuno guarda il Seminatore.
The ethical content of photographs is fragile.
Il labirinto, mi dico, deve essere labirintico. Non credo che possa tollerare una soluzione, né è possibile descriverlo.
Gli ambienti umidi sono per antonomasia spazi ibridi. […] In breve, le Paludi pontine furono spazi ibridi perché rappresentarono uno spazio di negoziazione.
Eh, sì, voi potete dire questo e dire pure: oggigiorno chi la calcola più la stretta di mano dopo che il saluto fascista, in coppia col saluto militare, la sdegettò al più basso grado, deprezzandola agli occhi di tutti.
Every photograph is a fiction with pretensions to truth. Despite everything that we have been inculcated, all that we believe, photography always lies; it lies instinctively, lies because its nature does not allow it to do anything else.
L’Histoire est hystérique: elle ne se constitue que si on la regarde —et pour la regarder, il faut en être exclu.
Il problema della forma di base dell’immagine fotografica era importante e vasto, ma adesso si sta sempre di più assottigliando. […] Questo è il limite e quindi il punto sul quale dobbiamo impegnarci: riappropriarci della possibilità di intervenire, riuscire a porci, nei confronti del mondo esterno, in una maniera più articolata.
Although the camera is an observation station, the act of photographing is more than passive observing. Like sexual voyeurism, it is a way of at least tacitly, often explicitly encouraging whatever is going on to keep on happening. To take a picture is to have an interest in things as they are, in the status quo remaining unchanged.
Credo che la fotografia consista essenzialmente in un’operazione di cancellazione del mondo esterno.
La Photographie est violente: non parce qu’elle montre des violences, mais parce qu’à chaque fois elle emplit deforce la vue, et qu’en elle rien ne peut se refuser, ni se transformer […].
O ingegnosissimo Theuth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria.
People robbed of their past seem to make the most fervent picture takers […].
Ero troppo occupato a fotografare e non ho guardato.
Bartehs, Roland. La chambre claire: Note sur la photographie. Paris: Seuil, 1980.
Biasillo, Roberta. Una storia ambientale delle Paludi Pontine. Roma: Viella, 2023.
D’Arrigo, Stefano. Horcynus Orca. Milano: Rizzoli, 2003.
Eco, Umberto. “Intervento alla Tavola Rotonda: ‘Fotografia, Memoria, Informazione’”. Ara Pacis, Roma, 10 ottobre 2010.
Flusser, Vilém. Towards A Philosophy of Photography. Göttingen: Derek Bennett, 1984.
Fontcuberta, Joan. Le baiser de Judas: Photographie et vérité. Arles: Actes Sud, 1996.
Ghirri, Luigi. Lezioni di fotografia. Macerata: Quodlibet, 2010.
Krauss, Rosalind. The Originality of the Avant-Garde and Other Modernist Myths. Cambridge: The MIT Press, 1986.
Manganelli, Giorgio. Hilarotragoedia. Milano: Adelphi, 1987.
Platone. Fedro. Milano: Bompiani, 2002.
Sontag, Susan. On Photography. London: Penguin Books, 2008.
L’impossibilità di rendere la complessità del reale trova corpo in questa serie fotografica, in cui il medium sembra non essere più in grado di restituire l’interezza di una figura. L’immagine della statua del Seminatore è qui affidata a frammenti di fotografie, che non è possibile ricomporre nella forma originaria. Assistiamo infatti impotenti a un reale fatto a pezzi dalle immagini, il cui quadro generale iniziale non è in grado di restituire un’immagine che sia coesa e coerente. La fragilità della fotografia come strumento per indagare il reale è testimoniata non solo dalla frammentarietà della serie, acuita dallo scorrere di brandelli di citazioni, ma anche dalle imperfezioni tecniche: tramite queste l’autore denuncia la finzionalità del tutto e l’impossibilità di comprensione totale della realtà in cui ci troviamo ad agire. In quest’ammissione di fragilità e impossibilità di restituire una visione d’insieme risiede non un pessimismo, ma una presa di coscienza che può ancora avere effetti sul reale. La fragilità può ancora dirci qualcosa, può rendersi motore per una riflessione e un ripensamento sul mondo. L’autore in quest’opera gioca con la fragilità, invitando lo spettatore ad accoglierla e farne motore per la ricomposizione della frammentarietà delle foto e del testo. Sta allo spettatore tentare di ricostruire un senso, di tracciare una personale connessione fra foto e citazioni, ricomponendo la statua del Seminatore in forme nuove diverse e personali. L’autore qui non vuole direzionare lo sguardo dello spettatore: quest’ultimo vaga dove vuole, riunifica quello che vuole, nella consapevolezza che non si possono avere fotografie oggettive, in quanto ogni foto è scattata da un’angolatura diversa, da un soggetto ben preciso e situato. Ogni foto scattata non è che testimonianza del modo in cui chi la scatta vede il mondo: è l’autore che decide quale porzione della realtà mostrare, e dunque ogni rappresentazione del reale non può che essere parziale, non può che essere rappresentazione dello sguardo di chi la traccia. E in queste foto noi ritroviamo proprio questo senso di parzialità, ritroviamo la denuncia e l’ammissione della limitatezza della nostra visione, delle porzioni del reale che ci vengono mostrate, narrate, suonate, e che tocca a noi unificare, attraverso il nostro vissuto. Siamo noi che decidiamo come guardare il mondo, che porzione di esso fotografare, e come tentare di ricomporne i pezzi. Solo assumendoci la responsabilità della fragilità, della ricomposizione imperfetta e parziale, ma personale e valida, possiamo tentare di comprendere qualcosa, su di noi, sulla realtà in cui agiamo e sul nostro passato. Ed è questo che ci invita a fare l’autore dell’opera: ci invita a assumere su di noi come collettività la responsabilità del nostro passato, la responsabilità di pacificazione con esso. La statua del Seminatore ivi raffigurata è difatti simbolo del passato fascista, un passato che la comunità non ha rimesso insieme ma ha ignorato, in un’atmosfera di omertà. La statua sta lì, davanti al tribunale di Latina, immobile e ignorata, simbolo di un qualcosa che non si vuole vedere ma che comunque esiste e resiste. Ci passiamo vicino ogni giorno, passiamo davanti a statue, monumenti fascisti, senza vederli davvero, rimuovendoli dalla memoria collettiva e trattandoli come qualcosa che non ci riguarda. Preferiamo allontanare le fragilità, coprirle eliminandole dai discorsi centrali, situiamo in periferia tutto ciò che ci mette in difficoltà. Le periferie diventano il luogo del rimosso, la zona in cui collocare riflessioni ingombranti e responsabilità collettive.
Siamo troppo impegnati a fotografare e non ricordiamo, scegliamo di non ricordare. Quest’opera ci obbliga a farlo, con delicatezza: ci mostra un passato in pezzi, testimoniando la fragilità di questo e la fragilità della memoria che abbiamo costruito, e ci offre l’opportunità di ricomporlo come più ci piace. Ci invita a riappropriarcene, a farlo nostro, prima individualmente ma poi collettivamente, nel tentativo di creare una memoria che sia davvero collettiva e creatrice.