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20 Apri­le 2023

Breve storia del mio pollice verde amputato

Le se­rie di stam­pe mi guar­da­no dal­le pa­re­ti del­la stan­za. Le ho ri­co­per­te com­ple­ta­men­te, or­mai. So­no 23 se­rie di 23 stam­pe cia­scu­na. Pos­so­no sem­bra­re mol­to si­mi­li, tut­te que­ste fo­to di pian­te. Al­cu­ne se­rie so­no per­si­no sul­le stes­se spe­cie. An­che vo­len­do con­ti­nua­re a pro­dur­ne, non so­no si­cu­ro che avrei lo spa­zio in ca­sa do­ve met­ter­le. So­no se­rie dif­fi­ci­li da si­ste­ma­tiz­za­re in un’unica cor­ni­ce, an­che se le fo­to­gra­fie so­no del for­ma­to più pic­co­lo con­ces­so­mi dal ne­ga­ti­vo. Il pro­ble­ma è il nu­me­ro: 23 è un nu­me­ro pri­mo. È nel­la sua na­tu­ra re­si­ste­re a ogni di­vi­sio­ne pre­ci­sa. Ci sa­rà sem­pre un ec­ces­so. O uno spa­zio vuo­to. Di­pen­de da co­me la si guar­da.

 

Vi­ve­vo già da so­lo quan­do è mor­to mio pa­dre. È en­tra­to in un ri­sto­ran­te e ha man­gia­to fi­no a pro­vo­car­si una rot­tu­ra dell’esofago. Ha or­di­na­to per 23 vol­te la stes­sa co­sa: agnel­lo al for­no con pa­ta­te e car­cio­fi frit­ti co­me con­tor­no. Ha man­gia­to com­po­sta­men­te dall’inizio al­la fi­ne, è il mo­ti­vo per cui nes­su­no è in­ter­ve­nu­to pri­ma. È riu­sci­to a fi­ni­re tut­te le por­zio­ni, ogni vol­ta im­pie­gan­do sem­pre lo stes­so tem­po; al­la fi­ne si è sem­pli­ce­men­te la­scia­to ca­de­re all’indietro sul­la se­dia. Da quel­lo che ci han­no rac­con­ta­to, sem­bra­va so­lo che stes­se ri­pren­den­do fia­to. Il me­di­co le­ga­le ha ac­cer­ta­to che la pri­ma emor­ra­gia in­ter­na de­ve es­se­re ini­zia­ta al­me­no in­tor­no al­la ven­te­si­ma por­ta­ta. Il ca­me­rie­re che lo ha ser­vi­to per tut­to il pran­zo non ave­va mo­do di sa­per­lo, non glie­ne fac­cio una col­pa. Era sem­pre sta­to un uo­mo mi­nu­to, qua­si ema­cia­to, mio pa­dre. Per quel­lo che po­te­va in­tuir­ne, ri­schia­va di sem­brar­gli dav­ve­ro so­lo qual­cu­no mol­to af­fa­ma­to e mol­to re­si­sten­te an­che do­po un si­mi­le quan­ti­ta­ti­vo di car­ne. In real­tà non cre­do che nes­su­no si sa­reb­be mai po­tu­to ac­cor­ge­re del­le sue in­ten­zio­ni o di quel­lo che l’agnello sta­va cau­san­do al suo cor­po. Ten­de­va a spa­ri­re dal­la per­ce­zio­ne, a sem­bra­re di non esi­ste­re. Pro­ba­bil­men­te han­no smes­so di pre­star­gli at­ten­zio­ne at­tor­no al­la quin­ta or­di­na­zio­ne. A vol­te suc­ce­de­va an­che a ca­sa, ci di­men­ti­ca­va­mo del­la sua pre­sen­za. È una del­le po­che co­se che sen­to di ave­re in co­mu­ne con lui.

Non ho mai pen­sa­to a me stes­so co­me una per­so­na so­la. Di si­cu­ro non pen­sa­vo a me in que­sto mo­do quan­do ero bam­bi­no. Era­no mol­ti a dir­lo, pe­rò. Io non ci ho mai cre­du­to, ri­spon­de­vo sem­pli­ce­men­te che ero un bam­bi­no se­rio, fi­glio di due ge­ni­to­ri se­ri. Se­ri nel sen­so di se­rio­si, non nel sen­so di co­scien­zio­si, seb­be­ne fos­se­ro an­che quel­lo. Nor­mal­men­te, le per­so­ne re­pli­ca­va­no che non gli sem­bra­va­mo una fa­mi­glia se­rio­sa, gli sem­bra­va­mo una fa­mi­glia tri­ste. Tri­ste nel sen­so di in­fe­li­ce, non nel sen­so di pa­te­ti­ca o squal­li­da, seb­be­ne fos­si­mo an­che quel­lo, for­se, so­prat­tut­to dall’esterno. A quel pun­to smet­te­vo di ri­bat­te­re. Ave­va­no ra­gio­ne, era­va­mo in­fe­li­ci, an­che se non sa­pe­vo o non ca­pi­vo il per­ché. So­no cre­sciu­to con que­sta con­sa­pe­vo­lez­za: era­va­mo in­fe­li­ci ma non era­va­mo so­li. E nes­su­no sa­pe­va il per­ché. E an­da­va be­ne co­sì. Ho ca­pi­to che era il con­tra­rio so­lo do­po la mor­te di mio pa­dre.

È suc­ces­so men­tre ascol­ta­vo l’orazione fu­ne­bre scrit­ta da mia ma­dre per il fu­ne­ra­le. Lo so che sem­bra stra­no di­re “ora­zio­ne fu­ne­bre”, ora co­me ora. Sa­reb­be più nor­ma­le di­re “elo­gio”, o an­che so­lo “di­scor­so”; per­so­nal­men­te, cre­do che sa­reb­be an­co­ra più cor­ret­to chia­mar­lo “sag­gio”, per­ché al­la fi­ne non era nien­te di di­ver­so da un sag­gio. Ma è il ter­mi­ne che ha scel­to lei, lo ha spe­ci­fi­ca­to all’inizio: “Que­sta è un’orazione fu­ne­bre, o un epi­taf­fio. Vo­glio che sia chia­ma­to co­sì e in nes­sun al­tro mo­do”. È sta­ta la pri­ma e uni­ca vol­ta che l’ho sen­ti­ta usa­re la pa­ro­la “vo­glio”. È sta­ta an­che la pri­ma e uni­ca vol­ta che l’ho sen­ti­ta par­la­re co­sì a lun­go. In un’unica epi­fa­nia di mez­zo­ra ho com­pre­so che non co­no­sce­vo dav­ve­ro né lui né lei. Ho com­pre­so che non sa­pe­vo per­ché lo aves­se fat­to, e che non lo sa­pe­va nem­me­no lei. Ho com­pre­so che non cre­de­vo aves­se la for­za mo­ra­le e spi­ri­tua­le per sui­ci­dar­si in un mo­do tan­to ar­ti­co­la­to, per ar­chi­tet­tar­lo e met­ter­lo in at­to co­sì me­to­di­ca­men­te. Ho com­pre­so che lo ave­vo sem­pre sot­to­va­lu­ta­to, in­con­scia­men­te. Ho com­pre­so che ave­vo sem­pre sot­to­va­lu­ta­to, in­con­scia­men­te, an­che mia ma­dre. Non ha mai pian­to per la sua mor­te. In­ve­ce è sa­li­ta sull’altare e ha ana­liz­za­to si­ste­ma­ti­ca­men­te la vi­ta di mio pa­dre. Non cer­ca­va una spie­ga­zio­ne: ave­va da su­bi­to ab­ban­do­na­to ogni vel­lei­tà di ra­zio­na­liz­za­re la co­sa. La sua era un’analisi pu­ra­men­te este­ti­ca: sem­pre nel­la sua “in­tro­du­zio­ne” l’ha de­fi­ni­ta “una le­zio­ne sul­la se­mio­ti­ca del suo sui­ci­dio, un elo­gio del­la sua so­brie­tà, dell’epurazione di ogni pos­si­bi­le ri­di­co­lag­gi­ne nel suo ge­sto, del­la ri­cer­ca di una per­fe­zio­ne for­ma­le nei suoi più mi­nu­ti par­ti­co­la­ri”. An­che il pas­sag­gio in cui pa­ra­go­na­va la sua mor­te al­la sce­na del­la bi­stec­ca nei Simp­son è sta­to no­te­vo­le. Ci ha ga­ran­ti­to l’ostracismo de­fi­ni­ti­vo dal re­sto del­la no­stra fa­mi­glia.

Ho com­pre­so che non era­no in­fe­li­ci. Era­no so­li. Nes­su­no dei due si per­ce­pi­va più, for­se da an­ni.

Ho com­pre­so che non ero in­fe­li­ce. Ero so­lo. Non li ave­vo mai ca­pi­ti.

Nel suo elo­gio, mia ma­dre ha rac­con­ta­to an­che del lo­ro in­con­tro. Si era­no mes­si in­sie­me qua­si su­bi­to do­po es­ser­si co­no­sciu­ti. Que­sto per­ché mia ma­dre era sta­ta l’unica a ca­pi­re co­sa in­ten­des­se mio pa­dre quan­do, all’università, ave­va com­men­ta­to “So it goes” do­po che il lo­ro pro­fes­so­re di cri­ti­ca let­te­ra­ria ave­va an­nun­cia­to in la­cri­me la mor­te di Ro­land Bar­thes. La ci­ta­zio­ne è di Von­ne­gut, Mat­ta­to­io n.5, e la ri­pe­te­va­no spes­so en­tram­bi, quan­do mo­ri­va qual­cu­no. Co­no­sce­vo già la sto­ria, e ave­vo let­to il ro­man­zo quan­do ave­vo quin­di­ci an­ni. Ho sem­pre pen­sa­to che lo fa­ces­se­ro sen­za un bri­cio­lo dell’ironia ori­gi­na­le di quel­la fra­se. Mi sem­bra­va che la lo­ro fos­se so­lo una con­sta­ta­zio­ne di fat­to, un sem­pli­ce e di­ret­to ri­co­no­sci­men­to del­la ca­du­ci­tà del­la car­ne: “È mor­ta mia non­na” “So it goes”.

Ora non ne so­no più co­sì si­cu­ro. Mio pa­dre rac­con­ta­va spes­so una sto­ria, fa­ce­va più o me­no co­sì: due uo­mi­ni d’affari por­ta­no a man­gia­re in un ri­sto­ran­te fran­ce­se un lo­ro col­le­ga giap­po­ne­se ap­pe­na ar­ri­va­to in cit­tà; al­la fi­ne del pran­zo, i due uo­mi­ni d’affari de­ci­do­no che al po­sto del dol­ce vo­glio­no pro­va­re il car­rel­lo dei for­mag­gi, so­lo che quan­do ar­ri­va il sud­det­to car­rel­lo il col­le­ga giap­po­ne­se im­pal­li­di­sce e co­min­cia a man­gia­re con gra­vi­tà, per­ché non sa che quel­le sul car­rel­lo non so­no le por­zio­ni ef­fet­ti­ve e che ov­via­men­te non è ob­bli­ga­to a fi­ni­re tut­te le for­me, e al con­tem­po il pro­prio ga­la­teo tra­di­zio­na­le lo co­strin­ge al­me­no a ten­ta­re di fi­ni­re tut­to quel­lo che gli vie­ne por­ta­to; quin­di il col­le­ga giap­po­ne­se si in­goz­za co­me un for­sen­na­to, per­ché spe­ra che la sua ago­nia ali­men­ta­re pos­sa fi­ni­re an­che so­lo mo­stran­do­si ap­pa­ga­to da quest’ultima por­zio­ne de­va­stan­te, ma pre­ve­di­bil­men­te le sue in­ten­zio­ni non ven­go­no ca­pi­te dai due uo­mi­ni d’affari, che in­ve­ce si dan­no tan­to di go­mi­to e si con­gra­tu­la­no con lui per­ché è dav­ve­ro una buo­na for­chet­ta; è so­lo quan­do il col­le­ga giap­po­ne­se stra­maz­za con la te­sta in una for­ma ap­pe­na ini­zia­ta di Pont-l’É­vê­que che i due uo­mi­ni d’affari co­min­cia­no a in­so­spet­tir­si e so­no co­stret­ti al­la fi­ne a chia­ma­re un’ambulanza per far­gli fa­re una la­van­da ga­stri­ca. Ov­via­men­te, la sto­ria ter­mi­na­va sem­pre con lui che chio­sa­va “So it goes”, spes­so men­tre ad­den­ta­va un pez­zo di par­mi­gia­no. Ov­via­men­te, l’ironia del­la sto­ria era l’unica par­te che gli sfug­gi­va, o al­me­no co­sì cre­de­vo. Ov­via­men­te, an­che que­sto è sta­to ri­cor­da­to da mia ma­dre nel­la sua ora­zio­ne. È un al­tro dei mo­ti­vi per cui sia­mo sta­ti ostra­ciz­za­ti: seb­be­ne nes­su­no lo ab­bia mai so­ste­nu­to aper­ta­men­te, era­no tan­ti a pen­sa­re che avrem­mo po­tu­to pre­ve­der­lo, che i se­gna­li c’erano tut­ti, e che l’insistenza su quel­la sto­riel­la squal­li­da e fa­ci­lo­na ne fos­se la pro­va in­con­fu­ta­bi­le. For­se ha fat­to ma­le a ri­cor­dar­la a tut­ti co­sì pla­teal­men­te. Lei ci ve­de­va del­la poe­sia, gli al­tri del grot­te­sco.

È una sto­ria ve­ra, di­ce­va mio pa­dre. Non ci ho mai cre­du­to mol­to, e mi so­no sem­pre ver­go­gna­to trop­po per fa­re una ri­cer­ca e con­trol­la­re. Non cre­do nean­che che fos­se il suo mo­do per chie­de­re aiu­to, in real­tà. Co­me non cre­do, o non cre­de­vo, che cen­tras­se mol­to l’ironia, in quel rac­con­to. Per co­me la rac­con­ta­va, al­la fi­ne, so­mi­glia­va più a un mo­ni­to con­tro la po­ca mo­ri­ge­ra­tez­za col ci­bo. Una sto­ria edi­fi­can­te e con una mo­ra­le ben pre­ci­sa. Ades­so so che ero io a non ca­pi­re, che per lui era dav­ve­ro una bat­tu­ta. For­se, sem­pli­ce­men­te, la sua pic­co­la tra­ge­dia uma­na era che non la sa­pe­va rac­con­ta­re.

Non lo so, co­me fa una per­so­na co­me mio pa­dre a sce­glie­re di sui­ci­dar­si in una ma­nie­ra del ge­ne­re, se dav­ve­ro pen­sa al­la mor­te co­sì fred­da­men­te? E co­me fa una per­so­na co­me mia ma­dre a me­ta­bo­liz­za­re la mor­te ci­tan­do i Simp­son a un fu­ne­ra­le? Co­me ho det­to, non li co­no­sce­vo, ero so­lo. “Si­gno­ra, suo ma­ri­to si è sui­ci­da­to a for­za di ab­bac­chio e car­cio­fi frit­ti” “So it goes”.

 

Nes­su­no in fa­mi­glia era ap­pas­sio­na­to di giar­di­nag­gio, an­che se te­ne­va­mo al­cu­ne pian­te aro­ma­ti­che sul bal­co­ne. Ma an­che di quel­le po­che non ci in­te­res­sa­va mol­to, il lo­ro de­sti­no era quel­lo di mo­ri­re ogni vol­ta che ci al­lon­ta­na­va­mo per po­co tem­po da ca­sa ed es­se­re rim­piaz­za­te al no­stro ri­tor­no, sen­za so­lu­zio­ne di con­ti­nui­tà. An­ni do­po ho ca­pi­to per­ché ogni vol­ta che ne pian­ta­va­mo di nuo­ve la lo­ro pro­ba­bi­li­tà di so­prav­vi­ve­re era sem­pre mi­no­re: nes­su­no di noi ave­va mai dav­ve­ro im­pa­ra­to a in­ter­rar­le. Le usa­va­mo an­che po­co. For­se per que­sto ho sem­pre ri­te­nu­to il ca­len­da­rio lu­na­re che te­ne­va­mo in ca­sa l’elemento più dis­so­nan­te del­la no­stra fa­mi­glia. Non lo com­pra­va­mo noi, era un re­ga­lo an­nua­le di mia non­na ma­ter­na. Ser­vi­va co­me in­di­ca­zio­ne su quan­do in­naf­fia­re, po­ta­re, trat­ta­re, con­ci­ma­re le no­stre mi­se­re pian­te, al­me­no teo­ri­ca­men­te. Pra­ti­ca­men­te, nes­su­no lo ha mai se­gui­to. Era­va­mo tre per­so­ne me­to­di­che, per il re­sto. Era so­lo che non ci in­te­res­sa­va­no mol­to, quel­le er­be. Non le sen­ti­va­mo par­te del­la no­stra mo­no­to­nia; te­mo ci di­stur­bas­se la lo­ro in­vo­lon­ta­ria re­si­sten­za, la lo­ro pro­pen­sio­ne al­la cre­sci­ta. Cre­do che avreb­be­ro pre­fe­ri­to mo­ri­re il pri­ma pos­si­bi­le, se aves­se­ro po­tu­to sce­glie­re, ve­den­do in che ma­ni era­no fi­ni­te.

È sta­to so­lo do­po la mor­te di mio pa­dre che le no­stre pian­te, che all’epoca era­no già da tem­po le pian­te dei miei ge­ni­to­ri e ades­so era­no ap­pe­na di­ven­ta­te uf­fi­cial­men­te le pian­te di mia ma­dre, han­no smes­so di mo­ri­re. Non era­no ri­go­glio­se né in gran­de sa­lu­te, al­me­no all’inizio. Sem­pli­ce­men­te so­prav­vi­ve­va­no. Mia ma­dre non sem­bra­va cu­rar­si di que­sto cam­bia­men­to, e se è per que­sto non da­va nean­che se­gni di es­ser­ne la cau­sa. Sem­pli­ce­men­te ac­ca­de­va, e vi­sta dall’esterno non è det­to che la co­sa le pia­ces­se. Ma co­mun­que era­no lì, e cre­sce­va­no, per quan­to len­ta­men­te.

Una vol­ta che so­no an­da­to a tro­var­la c’erano un pa­io di guan­ti da giar­di­nag­gio sul da­van­za­le di una fi­ne­stra che af­fac­cia sul suo bal­co­ne. Si ve­de­va che era­no sta­ti ap­pe­na usa­ti, e sem­bra­va­no es­ser­si già in­te­gra­ti nel lo­ro an­go­lo, sem­bra­va­no es­ser­si già li­be­ra­ti dell’aura alie­nan­te e per­tur­ban­te che nor­mal­men­te avreb­be­ro avu­to in quel­la ca­sa. Quan­do mia ma­dre si è ac­cor­ta che li sta­vo os­ser­van­do, si è li­mi­ta­ta a but­tar­li in uno dei ri­pia­ni af­fol­la­ti del mo­bi­le del bal­co­ne e mi ha in­vi­ta­to a ve­ni­re a man­gia­re.

Non ne ha mai fat­to pa­ro­la, né io ho mai vo­lu­to apri­re il di­scor­so. Non so­no si­cu­ro che sap­pia lei stes­sa per­ché ab­bia ini­zia­to a cu­ra­re quel­le pian­te. Non è un mo­do di ela­bo­ra­re il lut­to, al­me­no di que­sto so­no ab­ba­stan­za si­cu­ro. Ha già ela­bo­ra­to da tem­po la mor­te di mio pa­dre, il gior­no del fu­ne­ra­le o for­se quel­lo pri­ma, quan­do ha pen­sa­to e scrit­to l’orazione. Lì sull’altare era so­la, ma non era in­fe­li­ce. Co­me mio pa­dre, che è mor­to so­lo ma non in­fe­li­ce. All’obitorio ave­va an­co­ra il sor­ri­so un po’ pro­va­to ma sod­di­sfat­to di quan­do ave­va ter­mi­na­to di man­gia­re. Te­mo che mia ma­dre non ab­bia mai com­pre­so quan­to pun­tua­li fos­se­ro i suoi pa­ral­le­li­smi fu­ne­bri: sem­bra­va dav­ve­ro il ca­mio­ni­sta dei Simp­son che muo­re bea­to do­po aver con­su­ma­to con gar­bo la sua bi­stec­ca.

Quel gior­no so­no tor­na­to a ca­sa con in ma­no un maz­zo di er­be aro­ma­ti­che. Mia ma­dre ave­va bi­so­gno di li­be­rar­se­ne, le pian­te era­no cre­sciu­te trop­po e lei da so­la non riu­sci­va ad usar­le a suf­fi­cien­za per con­tra­star­le in que­sta lo­ro nuo­va ri­go­glio­si­tà. An­che se non sa­pe­vo co­sa far­me­ne non ho in­si­sti­to per­ché le te­nes­se. Non ave­va nean­che un sac­chet­to do­ve met­ter­le, ho do­vu­to por­tar­le stret­te nel pu­gno co­me un maz­zo di fio­ri. A ca­sa non ave­vo un va­so adat­to a con­te­ner­le, e an­co­ra me­no sa­pe­vo co­me pu­lir­le, even­tual­men­te; al suo po­sto ho usa­to un ba­rat­to­lo, met­ten­do­ce­le in­te­re con tut­ti i ra­mi. Un in­quie­tan­te bou­quet che non ren­de­va mol­to più gio­io­so il mio bi­lo­ca­le. Non sa­reb­be spa­ri­to, non per ma­no mia. Non sa­pe­vo il no­me di me­tà di quel­le pian­te. Non sa­pe­vo co­me usar­le, non po­te­vo fa­re al­tro che aspet­ta­re che ap­pas­sis­se­ro o mar­cis­se­ro o am­muf­fis­se­ro o sce­glies­se­ro un al­tro mo­do an­co­ra per dar­mi una scu­sa per but­tar­le. L’unica co­sa che po­te­vo fa­re nel frat­tem­po era fo­to­gra­far­le.

So­no sem­pre sta­to un fo­to­gra­fo me­dio­cre. Lo è la mia at­trez­za­tu­ra e lo so­no i miei ma­te­ria­li. Lo so­no so­prat­tut­to le mie ca­pa­ci­tà tec­ni­che ed este­ti­che. So­no me­dio­cri i miei sog­get­ti, so­no me­dio­cri le in­qua­dra­tu­re che scel­go per ri­pren­der­li, so­no me­dio­cri le stam­pe che rea­liz­zo. Non ho mai im­pa­ra­to a sfrut­ta­re i bian­chi pu­ri e i ne­ri pie­ni, i miei ne­ga­ti­vi so­no di­ste­se in­con­si­sten­ti di gri­gi in­de­fi­ni­ti. Su tut­ti i miei li­bri di fo­to­gra­fia si di­ce che i ne­ga­ti­vi de­vo­no es­se­re brut­ti, che non de­vo­no sem­bra­re at­traen­ti, al­me­no al­lo sguar­do di un fo­to­gra­fo al­le pri­me ar­mi. Io non so­no al­le pri­me ar­mi ma i miei ne­ga­ti­vi mi ap­pa­io­no an­co­ra brut­ti, e co­me ho det­to pri­ma lo so­no so­prat­tut­to le mie stam­pe. A vol­te non tro­vo dif­fe­ren­ze tra i due, tra il ne­ga­ti­vo e la sua stam­pa. Non è nean­che una que­stio­ne di sfu­ma­tu­re, di ele­gan­za nei gri­gi: le mie fo­to­gra­fie so­no tor­bi­de, na­sco­no già vec­chie sot­to l’ingranditore che mi so­no tra­sci­na­to nel ba­gno del mio ap­par­ta­men­to. An­che la scel­ta di scat­ta­re con la pel­li­co­la è par­te di que­sta me­dio­cri­tà, mi so­no so­lo li­mi­ta­to a riu­ti­liz­za­re l’attrezzatura di mio pa­dre. Non è sta­ta una ve­ra scel­ta, piut­to­sto la man­can­za di una scel­ta, e l’incapacità di ri­pu­diar­la quan­do ho ca­pi­to es­se­re quel­la sba­glia­ta. So­no un fo­to­gra­fo me­dio­cre ma pro­li­fi­co, e a par­te il ci­bo il mio sti­pen­dio, che di per sé non è mol­to al­to, se ne va so­prat­tut­to in pel­li­co­le di se­con­da scel­ta, chi­mi­ci se­mi-esau­sti, car­te sca­den­ti e li­bri usa­ti. Una scel­ta an­ti­e­co­no­mi­ca, una scel­ta ba­na­le, una scel­ta det­ta­ta so­lo da quel­lo che vo­mi­ta­va il ga­ra­ge an­gu­sto di fa­mi­glia.

L’unica co­sa in cui ec­cel­lo è la co­stru­zio­ne di se­rie del­le mie fo­to­gra­fie. Non che tol­ga mol­to al­la lo­ro me­dio­cri­tà: i miei sog­get­ti ri­man­go­no alie­ni a me in pri­mo luo­go, fo­to­gra­fo so­prat­tut­to quel­lo che non ca­pi­sco, quel­lo che mi fa pau­ra, e l’alterità di quel­lo che esce dal­la mia ca­me­ra oscu­ra non mi aiu­ta a dis­si­pa­re que­sto sen­so per­tur­ban­te. Si li­mi­ta a frap­por­re una di­stan­za. Una di­stan­za di gri­gi.

Quei ra­mi ra­chi­ti­ci non li com­pren­de­vo. Al­lo­ra li ho fo­to­gra­fa­ti. Non era quel­lo il lo­ro po­sto. Quin­di li ho re­si del­le stam­pe di in­de­ci­fra­bi­li gri­gi so­vrap­po­sti. Non per eter­nar­li, ma per ren­der­li ina­ni­ma­ti. Non per pro­teg­ger­li dal­la lo­ro stes­sa fra­gi­li­tà, ma per pri­var­li del­la lo­ro stes­sa vi­ta­li­tà. Per ren­der­li in­no­cui, an­che se le mie stam­pe non lo so­no.

Mi so­no fer­ma­to al­la ven­ti­tree­si­ma fo­to­gra­fia, sem­pli­ce­men­te per­ché era fi­ni­ta la pel­li­co­la. Quan­do ho ter­mi­na­to l’incorniciatura del­la se­rie ho de­ci­so di ap­pen­der­la in ca­me­ra, sul­la pa­re­te ai pie­di del let­to. La guar­da­vo men­tre aspet­ta­vo di ad­dor­men­tar­mi. Le mie fo­to­gra­fie so­no co­me cre­de­vo che fos­se la mia fa­mi­glia quan­do ero bam­bi­no: so­no in­fe­li­ci, ma al­me­no non so­no so­le. Ades­so, men­tre os­ser­vo le al­tre se­rie che ri­co­pro­no il re­sto del­le pa­re­ti, mi chie­do se non sia il con­tra­rio an­che per lo­ro, se in real­tà non sia so­lo io a non ca­pir­le, ma an­che lo­ro a non com­pren­der­si a vi­cen­da.

Le mie pri­me pian­te so­no ar­ri­va­te so­lo qual­che gior­no do­po.

 

Ho un col­le­ga ap­pas­sio­na­to di ci­ne­ma e di giar­di­nag­gio. An­che nel suo ca­so so­no ere­di­tà del­la sua fa­mi­glia. Ma a dif­fe­ren­za mia so­no ere­di­tà che ha scel­to, su cui ha con­trol­lo. Una vol­ta a set­ti­ma­na vie­ne da me e ci ve­dia­mo un film. Di so­li­to non guar­dia­mo più di die­ci mi­nu­ti di se­gui­to, met­te spes­so in pau­sa per spie­gar­mi qual­co­sa. Non so­no un esper­to, e non ho im­pa­ra­to a es­ser­lo do­po aver­lo in­con­tra­to. For­se lo fa per­ché cre­de di istruir­mi, o per­ché gli pia­ce par­la­re di ci­ne­ma con qual­cu­no che non può in­ter­rom­per­lo, o an­co­ra per­ché pen­sa che sia la na­tu­ra­le evo­lu­zio­ne del­le mie abi­tu­di­ni fo­to­gra­fi­che. In real­tà io lo fac­cio per non dar­gli un di­spia­ce­re. Quel­la set­ti­ma­na ave­va scel­to La Gran­de Bou­fee, un film su quat­tro uo­mi­ni che scel­go­no di man­gia­re fi­no a mo­ri­re. Non cre­do che mio pa­dre lo co­no­sces­se. An­che lui non era un esper­to di ci­ne­ma, non se n’era mai in­te­res­sa­to. Ma non lo pos­so sa­pe­re: non lo co­no­sce­vo.

Ho aspet­ta­to la fi­ne per di­re al mio col­le­ga che mio pa­dre era mor­to nel­lo stes­so mo­do, po­chi me­si pri­ma. Era so­lo una con­sta­ta­zio­ne, non vo­le­vo far­lo sen­ti­re in col­pa. Ma lui ci si è sen­ti­to co­mun­que. Non ave­va ca­pi­to le mie in­ten­zio­ni, che era­no so­prat­tut­to quel­le di dir­gli che era dav­ve­ro pos­si­bi­le per qual­cu­no sce­glie­re quel sui­ci­dio, che si può dav­ve­ro man­gia­re fi­no a mo­ri­re, e che in real­tà il pro­ces­so per qual­cu­no può es­se­re an­co­ra più se­re­no di quan­to non lo fos­se per quei quat­tro. È sta­ta la pri­ma vol­ta che sia­mo ri­ma­sti in si­len­zio per più di die­ci mi­nu­ti. Quan­do il si­len­zio si è fat­to in­sop­por­ta­bi­le, al­me­no per lui, si è al­za­to e ha pre­so i ra­mi dal ba­rat­to­lo, pri­ma di an­dar­se­ne.

Il gior­no do­po mi ha por­ta­to tre pic­co­li va­si a la­vo­ro, pie­ni di ter­ra e con i ra­met­ti che ave­va tro­va­to a ca­sa mia. Spun­ta­va­no con fie­rez­za dal­la ter­ra ba­gna­ta, e co­mun­que di­mo­stra­va­no tut­ta la lo­ro fra­gi­li­tà re­si­dua, le­ga­ti com’erano a del­le can­nuc­ce di bam­bù per far­li sta­re in pie­di. Mi ha spie­ga­to che era­no del­le ta­lee, un mo­do per far cre­sce­re una nuo­va pian­ta da un so­lo ra­mo. Mi ha spie­ga­to an­che co­me cu­rar­le, quan­do in­naf­fiar­le e quan­to ci avreb­be­ro mes­so a cre­sce­re. Mi ha re­ga­la­to del con­ci­me li­qui­do e dei pez­zet­ti di coc­cio. Ser­vo­no per met­ter­li sul fon­do dei va­si pri­ma di riem­pir­li di ter­ra, mi ha det­to. Ho ac­cet­ta­to tut­to co­me ave­vo ac­cet­ta­to i pri­mi ra­mi di mia ma­dre, per­ché non vo­le­vo de­lu­der­lo.

Un ra­met­to di ro­sma­ri­no, un ra­met­to di sal­via e un ra­met­to di men­ta. Nes­sun “So it goes” per lo­ro.

Pri­ma di tor­na­re a ca­sa so­no pas­sa­to a pren­de­re qual­che pel­li­co­la. Quan­do so­no rien­tra­to ho co­min­cia­to a fo­to­gra­fa­re le mie nuo­ve ta­lee. Le se­rie di 23 fo­to­gra­fie so­no ve­nu­te spon­ta­nee, so­lo per­ché co­sì era la pri­ma. An­che que­sta è una scel­ta an­ti­e­co­no­mi­ca: le pel­li­co­le che uso han­no 36 scat­ti; quel nu­me­ro pri­mo com­pli­ca sem­pre le co­se. Quan­do fi­ni­vo una se­rie la ap­pen­de­vo ac­can­to al­la pre­ce­den­te; ogni se­rie ren­de­va più so­la la pre­ce­den­te. Una di­stan­za di gri­gi an­che nel­la con­ti­gui­tà.

 

Il mio col­le­ga ora vie­ne sem­pre da me con una nuo­va pian­ta, ogni set­ti­ma­na. Di so­li­to è un fio­re. Di so­li­to ap­pas­si­sce o mar­ci­sce en­tro una de­ci­na di gior­ni. Mi di­ce che ci met­to trop­pa ac­qua, o trop­po po­ca. Mi di­ce che le met­to nei po­sti sba­glia­ti, che è sba­glia­ta la stes­sa espo­si­zio­ne del mio ap­par­ta­men­to. Pro­va a di­spor­le lui, pro­va a trat­tar­le quan­do vie­ne a ca­sa. Muo­io­no co­mun­que: “So it goes”. Poi con­trol­la le ta­lee: ades­so so­no del­le pian­te ve­re e pro­prie, e a me fan­no pau­ra. So­no cre­sciu­te da so­le, an­che se di­sat­ten­de­vo i suoi sug­ge­ri­men­ti, an­che se le in­naf­fia­vo e le con­ci­ma­vo nei pe­rio­di sba­glia­ti, an­che se po­ta­vo ma­le le par­ti sec­che, an­che se era­no espo­ste ma­le. Gli chie­do spes­so se gli sem­bri­no in­fe­li­ci o so­le, o en­tram­be. Mi ri­spon­de sem­pre che se­con­do lui so­no fe­li­ci e mai so­le, che a vol­te re­si­sto­no so­lo per­ché è co­sì che de­ve es­se­re. Mi di­ce che ognu­no ha un pol­li­ce ver­de, che il mio sem­pli­ce­men­te è am­pu­ta­to. Con­ti­nuo a fo­to­gra­far­le in to­na­li­tà di gri­gi in­di­stri­ca­bi­li.

È il so­lo che ab­bia mai vi­sto le mie se­rie. An­che le mie fo­to­gra­fie di que­ste pian­te non gli sem­bra­no né in­fe­li­ci né so­le. Non lo in­quie­ta quel­lo spa­zio ano­ma­lo do­ve man­ca la ven­ti­quat­tre­si­ma fo­to­gra­fia. Non ca­pi­sce mai di qua­le pian­ta sia ogni fo­to­gra­fia, ma di­stin­gue i gri­gi. Io non lo so fa­re.

Ho de­ci­so che fa­rò la ven­ti­quat­tre­si­ma se­rie, an­che se non ho lo spa­zio do­ve met­ter­la. For­se la da­rò a lui. For­se la da­rò a mia ma­dre. Non lo so. Non so se di­ven­te­ran­no una con­ti­gui­tà di gri­gi, in ma­no lo­ro. Le pian­te di mia ma­dre con­ti­nua­no a cre­sce­re, po­trei fo­to­gra­fa­re an­che lo­ro. O quel­le del mio col­le­ga. For­se non la ve­drò, la lo­ro so­li­tu­di­ne. For­se non mi fa­ran­no pau­ra.