Skip to main content

Te­sti di
An­to­nio Amo­dio

Co­per­ti­na di
An­drei Co­stan­ti­no Cu­ciuc

Edi­ting di
Ali­ce Mi­glia­vac­ca

Ca­te­go­ria
Cor­to-cir­cui­ti

Da­ta di pub­bli­ca­zio­ne
4 Ot­to­bre 2023

Le rive mai sommerse

A ogni San Gen­na­ro un estra­neo suo­na due vol­te al­la mia por­ta.
È il se­gna­le che a bre­ve, per me, il tem­po scor­re­rà di nuo­vo.
Quan­do ar­ri­va­no gli ospi­ti, Car­men li ac­co­glie Lou­bou­tin ai pie­di e ro­so­lio fra le di­ta.
Il suo «Vie­ni.» im­per­la un sor­ri­so fem­me fa­ta­le, bril­lan­te co­me l’iride da cui or­mai non ve­do più. E poi pas­si. Pas­si. L’eco di en­tram­bi, uno scal­pic­cio a tac­chi e sin­co­pi, ri­sa­le il par­quet e mi rag­giun­ge nel­lo stu­dio­lo, eva­po­ran­do in sus­sur­ri al­le so­glie del­la ca­me­ra. Cer­co di sen­tir­ci un lo­ro mez­zo fia­to, ma dab­bas­so i cuoz­zi han­no da sfun­na­cà ‘e bion­de pri­ma dei fi­nan­zie­ri, ché per le guar­die non è mai fe­sta né do­me­ni­ca. Al­lo­ra mu­gu­gno. Trop­pe ur­la, giù. Trop­pi fi­schi. Mu­gu­gno. Mu­gu­gno. E co­sì Car­men sci­vo­la via dall’abbraccio del no­stro gio­va­ne ospi­te, m’oltrepassa e chiu­de la fi­ne­stra.
«Ades­so è più tran­quil­lo.» di­ce a tut­ti e due. A noi.
Obiet­to.
La mat­ti­na, nel frat­tem­po, gron­da in per­vin­ca lun­go le pie­ghe del suo sa­ri, dal­la cui se­ta stra­ri­pa un pro­fu­mo d’arance. M’addensa i pol­mo­ni. Sì, i miei pol­mo­ni, viz­zi co­me can­di­ti. «Te­so­ro?» do­man­da lei, già in­tuen­do che «La mu­si­ca, eh?» non c’è an­co­ra.
Con tut­to il vi­vo di me – il mi­gno­lo e l’occhio buo­no – la spin­go ver­so il gi­ra­di­schi.
Sem­bro una tar­ta­ru­ga. Muo­ver­la, una fa­lan­ge, è nuo­tar­mi ogni ma­re del pia­ne­ta.
Car­men sfio­ra i vi­ni­li.
«Gli Un­der­ground.» fa de­ci­sa.
Am­mic­co due vol­te.
Lei pro­se­gue ai di­schi suc­ces­si­vi.
«Buo­no­co­re?»
Di nuo­vo no.
«Ho ca­pi­to.» mor­mo­ra po­co do­po, si­ste­man­do sul Fi­sher un al­bum di Ra­dius.
Sì.
E ades­so la pun­ti­na sol­ca vec­chi re­spi­ri di moog, viag­gia, a pren­de­re in ma­no la lo­gi­ca di un gior­no idio­ta, a far­la vi­bra­re nell’aria, la­scian­do che il ven­to la scuo­ta, co­me la not­te al Lloyd, do­ve ho uc­ci­so i miei ul­ti­mi vi­zi. Car­men era là, fron­te pal­co, per­sa nel­la ma­lin­co­nia d’un Ga­gliar­di un po’ bril­lo. E io, più per­so di lei tra il Thur­gau e le fa­vo­le che in­si­ste­vo a rac­con­tar­mi, aspet­ta­vo la bas­sa ma­rea. La fi­ne del­le chiac­chie­re da pri­vé, del­la rou­let­te di fac­ce, dei sor­ri­si sen­za usci­ta. Quel gior­no ho smes­so con le bu­gie. Car­men m’ha guar­da­to den­tro e tut­te le cioc­che, i lo­bi e le lab­bra che aves­si mai ba­cia­to so­no di­ven­ta­ti lei. Che co­sa sei, che co­sa sei, io me ne ac­cor­go so­lo quan­do te ne vai.
«Ec­co­ci.» mi fa, men­tre ri­vol­ge la car­roz­zi­na ver­so lo spec­chio a la­to del­la li­bre­ria.
Il clac dei fre­ni an­ti­ci­pa l’eco dei suoi sti­let­ti che tor­na­no dall’uomo die­tro di noi.
Dal­la mia boc­ca sba­va un fi­lo di fe­li­ci­tà, sot­ti­le, tra­slu­ci­do co­me un’illusione.
Il tem­po scor­re di nuo­vo.
Ri­bal­ta­ta nel­lo spec­chio as­sie­me a lui, Car­men gli s’avvicina. Or­mai è a un re­spi­ro dal­le sue lab­bra, e con la ma­no ac­ca­rez­za il bic­chie­re che l’ospite non ha sfio­ra­to.
«Aste­mio?»
«No.» re­pli­ca l’uomo, il ra­gaz­zo, an­zi «Ho so­lo una se­te di­ver­sa.»
«Mh. Av­vi­ci­na­ti. E ri­cor­da… Og­gi ti chia­mi Leo­ne.»
Lui non mi ve­de, ma io li os­ser­vo. Fra i ca­pel­li scu­ri di Car­men col­go il ghi­gno di quell’altro, una fal­ce d’arroganza e la­sci­via che im­ba­raz­ze­reb­be Sa­de, men­tre sul par­quet già gli pio­ve la cra­vat­ta. Sì, Me­mè, l’hai ac­chiap­pa­to be­ne sta­vol­ta. Be­nis­si­mo. Sem­bra un ghe­par­do a di­giu­no. An­si­ma. Guar­da­lo, qua­si rin­ghia. Ha il ma­loc­chio scin­til­lan­te al­la Wil­liam De­va­ne e le zam­pe ra­pa­ci, tan­to avi­de che or­mai il tuo sa­ri è un fan­ta­sma tra le vo­stre ca­vi­glie, flac­ci­do e inu­ti­le, co­me la mu­ta di una vi­pe­ra.
Ed ec­co­ti.
Non in­dos­si nien­te. So­lo per­le Akoya e nu­do amo­re. Ma fra quei se­ni, le co­sce, giù dai de­cli­vi di quel­la schie­na d’adularia, ci pian­go il sa­di­smo d’un Dio che m’ha esi­lia­to dall’Eden del tuo cor­po la­scian­do­mi lì, all’ombra di un’intoccabile bel­lez­za, men­tre da te ha sop­por­ta­to em­pie­tà sen­za mai pu­nir­ti, nem­me­no quan­do hai smes­so la to­na­ca.
Un Dio a me­tà, che non di­spen­sa giu­sti­zia, e di­nan­zi a lui tu. Fem­mi­na. Tut­ta in­te­ra.
«Leo­ne.» sus­sur­ra Car­men all’uomo, al­lon­ta­nan­do il sa­ri «Hai se­te?»
L’altro an­nui­sce. Gli fre­mo­no le ma­ni, già sul­le cla­vi­co­le di lei. È drit­to, le pre­me ad­dos­so col fal­lo, e ora che non è più nei ve­sti­ti, la si­re­na di quel san­gue ri­bol­len­te lo trat­tie­ne a sten­to nel­la sua scor­za di ra­gaz­zo. Car­men se lo met­te in gi­noc­chio. Mu­go­la.
«Al­lo­ra be­vi.» or­di­na, ser­ran­do­gli le co­sce al­la boc­ca – e strin­ge for­te. For­tis­si­mo. Per­si­no la mia lin­gua è umi­da di lei, del suo sal­ma­stro di vul­va, iden­ti­co al­la brez­za di quan­do, a Poz­zil­lo, sco­prii del­la Du­chen­ne. Al tem­po, Car­men mi dis­se so­lo pren­di­mi.
«Pren­di­mi.» gli bo­fon­chia vol­tan­do­si.
L’assaporai. Noi due ce­la­ti dal­la sco­glie­ra. Il cie­lo sul pun­to di fra­na­re in ac­qua. Ma og­gi, del­la tem­pe­sta che fu, nel­lo spec­chio tro­vo so­la­men­te un dop­pio­ne ri­fles­so. Ed è una bur­ra­sca di cor­pi, are­na­ta­si al lar­go del­le sab­bie do­ve so­no sta­to un uo­mo in­te­ro per l’ultima vol­ta. En­tra, e la ma­rea pren­de la rin­cor­sa, men­tre lo sci­roc­co sfer­za la spiag­gia. Fot­ti­mi, quan­do i flut­ti s’infrangono sul­le roc­ce. Dam­me­lo, Leo­ne, gri­da Car­men, co­me le stril­la dei gab­bia­ni so­pra le ton­na­re. E la lo­ro avi­di­tà cre­sce, e cre­sce e cre­sce, fin­ché di tut­ta quel­la fe­ro­cia non ri­ma­ne che schiu­ma e ri­sac­ca. Se­me su per­le.
Il tem­po è di nuo­vo so­spe­so.
Ve­do Car­men pu­lir­si dall’orgasmo con le ma­ni, pri­ma di ri­tro­var­me­la ac­can­to.
«Vai di là.» di­ce all’altro, men­tre le un­ghie di lei sfio­ra­no i cu­bi­smi del mio vi­so.
E nel­le sue ca­rez­ze – sca­bre di sper­ma e sa­le – c’è tut­ta la vi­ta che mi man­ca.
«Buon com­plean­no, Leo­ne.» mi bi­sbi­glia, dal­le ri­ve mai som­mer­se di quel­la not­te.